A printed edition of the Manifesto was published in August 1943 following the foundation of the Movimento Federalista Europeo in Milan. This version is preceded by an unascribed introduction and divided in four sections, the third one being by Rossi. In January 1944 Colorni published in Rome a new edition of the Manifesto in a book entitled ‘Problemi della Federazione Europea’ containing a new preface by himself, a new version of the Manifesto divided in three section and the two essays written by Spinelli in Ventotene: ‘The United States of Europe and the Various Political Tendencies’ and ‘Marxist Policy and Federalist Policy’.
Colorni edited the three-section version of the Manifesto from the four-section one inserting the first part of the IV section, ‘The revolutionary situation: old and new trends’, in the II section, ‘Post-war tasks: European unity’; while the second part of the IV section is inserted at the end of the III section, ‘Post-war duties: reform of society’. More, Colorni improved the style and made some little cuts in the phrases against the USSR and the Holy See.
The book ‘Problemi della Federazione Europea’ has been republished as ‘Il Manifesto di Ventotene’ several times with new presentations and essays. The three-section version of the Manifesto is the most known and the most translated one.
Manifesto
I. La crisi della civiltà moderna
La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l'uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico a tutti gli aspetti della vita sociale che non lo rispettassero:
1. Si è affermato l'uguale diritto a tutte le nazioni di organizzarsi in stati indipendenti. Ogni popolo, individuato nelle sue caratteristiche etniche, geografiche, linguistiche e storiche, doveva trovare nell'organismo statale, creato per proprio conto, secondo la sua particolare concezione della vita politica, lo strumento per soddisfare nel modo migliore ai suoi bisogni, indipendentemente da ogni intervento estraneo.
L'ideologia dell'indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso; ha fatto superare i meschini campanilismi in un senso di più vasta solidarietà contro l'oppressione degli stranieri dominatori; ha eliminato molti degli inciampi che ostacolavano la circolazione degli uomini e delle merci; ha fatto estendere, dentro al territorio di ciascun nuovo Stato, alle popolazioni più arretrate, le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili. Essa portava però in sé i germi del nazionalismo imperialista, che la nostra generazione ha visto ingigantire, fino alla formazione degli Stati totalitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali.
La nazione non è ora più considerata come lo storico prodotto della convivenza degli uomini che, pervenuti, grazie ad un lungo processo, ad una maggiore uniformità di costumi e di aspirazioni, trovano nel loro stato la forma più efficace per organizzare la vita collettiva entro il quadro di tutta la società umana. È invece divenuta un'entità divina, un organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al proprio sviluppo, senza in alcun modo curarsi del danno che gli altri possono risentirne. La sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di dominio sugli altri e considera suo «spazio vitale» territori sempre più vasti che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza senza dipendere da alcuno. Questa volontà di dominio non potrebbe acquietarsi che nell'egemonia dello stato più forte su tutti gli altri asserviti.
In conseguenza lo stato, da tutelatore della libertà dei cittadini, si è trasformato in padrone di sudditi, tenuti a servirlo con tutte le facoltà per rendere massima l'efficenza bellica. Anche nei periodi di pace, considerati come soste per la preparazione alle inevitabili guerre successive, la volontà dei ceti militari predomina ormai, in molti paesi, su quella dei ceti civili, rendendo sempre più difficile il funzionamento di ordinamenti politici liberi; la scuola, la scienza, la produzione, l'organismo amministrativo sono principalmente diretti ad aumentare il potenziale bellico; le madri vengono considerate come fattrici di soldati, ed in conseguenza premiate con gli stessi criteri con i quali alle mostre si premiano le bestie prolifiche; i bambini vengono educati fin dalla più tenera età al mestiere delle armi ed all'odio per gli stranieri; le libertà individuali si riducono a nulla dal momento che tutti sono militarizzati e continuamente chiamati a prestar servizio militare; le guerre a ripetizione costringono ad abbandonare la famiglia, l'impiego, gli averi ed a sacrificare la vita stessa per obiettivi di cui nessuno capisce veramente il valore, ed in poche giornate distruggono i risultati di decenni di sforzi compiuti per aumentare il benessere collettivo.
Gli stati totalitari sono quelli che hanno realizzato nel modo più coerente la unificazione di tutte le forze, attuando il massimo di accentramento e di autarchia, e si sono perciò dimostrati gli organismi più adatti all'odierno ambiente internazionale. Basta che una nazione faccia un passo più avanti verso un più accentuato totalitarismo, perché sia seguita dalle altre nazioni, trascinate nello stesso solco dalla volontà di sopravvivere.
2) Si è affermato l'uguale diritto per i cittadini alla formazione della volontà dello Stato. Questa doveva così risultare la sintesi delle mutevoli esigenze economiche e ideologiche di tutte le categorie sociali liberamente espresse. Tale organizzazione politica ha permesso di correggere, o almeno di attenuare, molte delle più stridenti ingiustizie ereditate dai regimi passati. Ma la libertà di stampa e di associazione e la progressiva estensione del suffragio rendevano sempre più difficile la difesa dei vecchi privilegi mantenendo il sistema rappresentativo. I nullatenenti a poco a poco imparavano a servirsi di questi istrumenti per dare l'assalto ai diritti acquisiti dalle classi abbienti; le imposte speciali sui redditi non guadagnati e sulle successioni, le aliquote progressive sulle maggiori fortune, le esenzioni dei redditi minimi e dei beni di prima necessità, la gratuità della scuola pubblica, l'aumento delle spese di assistenza e di previdenza sociale, le riforme agrarie, il controllo delle fabbriche, minacciavano i ceti privilegiati nelle loro più fortificate cittadelle.
Anche i ceti privilegiati che avevano consentito all'uguaglianza dei diritti politici non potevano ammettere che le classi diseredate se ne valessero per cercare di realizzare quell'uguaglianza di fatto che avrebbe dato a tali diritti un contenuto concreto di effettiva libertà. Quando, dopo la fine della prima guerra mondiale, la minaccia divenne troppo forte, fu naturale che tali ceti applaudissero calorosamente ed appoggiassero le instaurazioni delle dittature che toglievano le armi legali di mano ai loro avversari.
D'altra parte la formazione di giganteschi complessi industriali e bancari e di sindacati, riunenti sotto un'unica direzione interi eserciti di lavoratori, sindacati e complessi che premevano sul governo per ottenere la politica più rispondente ai loro particolari interessi minacciava di dissolvere lo stato stesso in tante baronie economiche in acerba lotta tra loro. Gli ordinamenti democratico-liberali, divenendo lo strumento di cui questi gruppi si valevano per meglio sfruttare l'intera collettività, perdevano sempre più il loro prestigio, e così si diffondeva la convinzione che solamente lo stato totalitario, abolendo la libertà popolare, potesse in qualche modo risolvere i conflitti di interessi che le istituzioni politiche esistenti non riuscivano più a contenere.
Di fatto poi i regimi totalitari hanno consolidato in complesso la posizione delle varie categorie sociali nei punti volta a volta raggiunti, ed hanno precluso, col controllo poliziesco di tutta la vita dei cittadini e con la violenta eliminazione dei dissenzienti, ogni possibilità legale di correzione dello stato di cose vigente. Si è così assicurata l'esistenza del ceto assolutamente parassitario dei proprietari terrieri assenteisti, e dei redditieri che contribuiscono alla produzione sociale solo col tagliare le cedole dei loro titoli, dei ceti monopolistici e delle società a catena che sfruttano i consumatori e fanno volatizzare i denari dei piccoli risparmiatori, dei plutocrati, che, nascosti dietro alle quinte, tirano i fili degli uomini politici, per dirigere tutta la macchina dello stato a proprio esclusivo vantaggio, sotto l'apparenza del perseguimento dei superiori interessi nazionali. Sono conservate le colossali fortune dei pochi e la miseria delle grandi masse, escluse dalle possibilità di godere i frutti della moderna cultura. È salvato, nelle sue linee sostanziali, un regime economico in cui le risorse materiali e le forze del lavoro, che dovrebbero essere rivolte a soddisfare i bisogni fondamentali per lo sviluppo delle energie vitali umane, vengono invece indirizzate alla soddisfazione dei desideri più futili di coloro che sono in grado di pagare i prezzi più alti; un regime economico in cui, col diritto di successione, la potenza del denaro si perpetua nello stesso ceto, trasformandosi in un privilegio senza alcuna corrispondenza al valore sociale dei servizi effettivamente prestati, e il campo delle alternative ai proletari resta così ridotto che per vivere sono spesso costretti a lasciarsi sfruttare da chi offra loro una qualsiasi possibilità d'impiego.
Per tenere immobilizzate e sottomesse le classi operaie, i sindacati sono stati trasformati, da liberi organismi di lotta, diretti da individui che godevano la fiducia degli associati, in organi di sorveglianza poliziesca, sotto la direzione di impiegati scelti dal gruppo governante e ad esso solo responsabili. Se qualche correzione viene fatta a un tale regime economico, è sempre solo dettata dalle esigenze del militarismo, che hanno confluito con le reazionarie aspirazioni dei ceti privilegiati nel far sorgere e consolidare gli stati totalitari.
3) Contro il dogmatismo autoritario si è affermato il valore permanente dello spirito critico. Tutto quello che veniva asserito doveva dare ragione di sé o scomparire. Alla metodicità di questo spregiudicato atteggiamento sono dovute le maggiori conquiste della nostra società in ogni campo.
Ma questa libertà spirituale non ha resistito alla crisi che ha fatto sorgere gli stati totalitari. Nuovi dogmi da accettare per fede o da osservare ipocritamente, si stanno accampando in tutte le scienze. Quantunque nessuno sappia che cosa sia una razza e le più elementari nozioni storiche ne facciano risultare l'assurdità, si esige dai fisiologi di credere di mostrare e convincere che si appartiene ad una razza eletta, sol perché l'imperialismo ha bisogno di questo mito per esaltare nelle masse l'odio e l'orgoglio. I più evidenti concetti della scienza economica debbono essere considerati anatemi per presentare la politica autarchica, gli scambi bilanciati e gli altri ferrivecchi del mercantilismo, come straordinarie scoperte dei nuovi tempi. A causa della interdipendenza economica di tutte le parti del mondo, spazio vitale per ogni popolo che voglia conservare il livello di vita corrispondente alla civiltà moderna è tutto il globo; ma si è creata la pseudo scienza della geopolitica, che vuol dimostrare la consistenza della teoria degli spazi vitali, per dar veste teorica alla volontà di sopraffazione dell'imperialismo.
La storia viene falsificata nei suoi dati essenziali nell'interesse della classe governante. Le biblioteche e le librerie vengono purgate da tutte le opere non considerate ortodosse. Le tenebre dell'oscurantismo di nuovo minacciano soffocare lo spirito umano.
La stessa etica sociale della libertà e dell'uguaglianza è scalzata. Gli uomini non sono più considerati cittadini liberi, che si valgono dello stato per meglio raggiungere i loro fini collettivi. Sono servitori dello stato che stabilisce quali debbono essere i loro fini, e come volontà dello stato viene senz'altro assunta la volontà di coloro che detengono il potere. Gli uomini non sono più soggetti di diritto, ma, gerarchicamente disposti, son tenuti ad ubbidire senza discutere alle gerarchie superiori che culminano in un capo debitamente divinizzato. Il regime delle caste rinasce prepotente dalle sue stesse ceneri.
Questa reazionaria civiltà totalitaria, dopo aver trionfato in una serie di paesi, ha infine trovato nella Germania nazista la potenza che si è ritenuta capace di trarne le ultime conseguenze. Dopo una meticolosa preparazione, approfittando con audacia e senza scrupoli delle rivalità, degli egoismi, delle stupidità altrui, trascinando al suo seguito altri stati vassalli europei – primo tra i quali l'Italia – alleandosi col Giappone che persegue fini identici in Asia, essa si è lanciata nell'opera di sopraffazione.
La sua vittoria significherebbe il definitivo consolidamento del totalitarismo nel mondo. Tutte le sue caratteristiche sarebbero esasperate al massimo, e le forze progressive sarebbero condannate per lungo tempo ad una semplice opposizione negativa. La tradizionale arroganza e intransigenza dei ceti militari tedeschi può già darci un'idea di quel che sarebbe il carattere del loro dominio dopo una guerra vittoriosa. I tedeschi, vittoriosi, potrebbero anche permettersi una lustra di generosità verso gli altri popoli europei, rispettare formalmente i loro territori e le loro istituzioni politiche, per governare così soddisfacendo lo stupido sentimento patriottico che guarda ai colori dei pali di confine ed alla nazionalità degli uomini politici che si presentano alla ribalta, invece che al rapporto delle forze ed al contenuto effettivo degli organismi dello stato. Comunque camuffata, la realtà sarebbe sempre la stessa: una rinnovata divisione dell'umanità in Spartiati e in Iloti.
Anche una soluzione di compromesso tra le parti ora in lotta significherebbe un ulteriore passo innanzi del totalitarismo, poiché tutti i paesi che fossero sfuggiti alla stretta della Germania sarebbero costretti ad accettare le sue stesse forme di organizzazione politica, per prepararsi adeguatamente alla ripresa della guerra.
Ma la Germania hitleriana, se ha potuto abbattere ad uno ad uno gli stati minori, con la sua azione ha costretto forze più potenti a scendere in lizza. La coraggiosa combattività della Gran Bretagna, anche nel momento più critico in cui era rimasta sola a tener testa al nemico, ha fatto sì che i tedeschi siano andati a cozzare contro la strenua resistenza dell'esercito sovietico, ed ha dato tempo all'America di avviare la mobilitazione delle sue sterminate forze produttive. E questa lotta contro l'imperialismo tedesco si è strettamente connessa con quella che il popolo cinese va conducendo contro l'imperialismo giapponese.
Immense masse di uomini e ricchezze sono già schierate contro le potenze totalitarie. Le forze di queste potenze hanno raggiunto il loro culmine e non possono oramai che consumarsi progressivamente. Quelle avverse hanno invece già superato il momento della massima depressione e sono in ascesa. La guerra delle Nazioni Unite risveglia ogni giorno di più la volontà di liberazione anche nei paesi che avevano soggiaciuto alla violenza, ed erano come smarriti per il colpo ricevuto, E persino risveglia tale volontà nei popoli delle potenze dell'Asse, i quali si accorgono di essere trascinati in una situazione disperata solo per soddisfare la brama di dominio dei loro padroni.
Il lento processo, grazie al quale enormi masse di uomini si lasciavano modellare passivamente dal nuovo regime, vi si adeguavano e contribuivano così a consolidarlo, è arrestato e si è invece iniziato il processo contrario. In questa immensa ondata, che lentamente si solleva, si ritrovano tutte le forze progressiste: le parti più illuminate delle classi lavoratrici che si erano lasciate distogliere, dal terrore e dalle lusinghe, nella loro aspirazione ad una superiore forma di vita; gli elementi più consapevoli dei ceti intellettuali, offesi dalla degradazione cui è sottoposta l'intelligenza; imprenditori, che sentendosi capaci di nuove iniziative, vorrebbero liberarsi dalle bardature burocratiche, e dalle autarchie nazionali, che impacciano ogni movimento; tutti coloro, infine, che, per un senso innato di dignità, non sanno piegare la spina dorsale nella umiliazione della servitù.
A tutte queste forze è oggi affidata la salvezza della nostra civiltà.
II. I compiti del dopoguerra – L'unità europea
La sconfitta della Germania non porterebbe automaticamente al riordinamento dell'Europa secondo il nostro ideale di civiltà.
Nel breve intenso periodo di crisi generale, in cui gli stati nazionali giaceranno fracassati al suolo, in cui le masse popolari attenderanno ansiose la parola nuova e saranno materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme nuove, capace di accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti, i ceti che più erano privilegiati nei vecchi sistemi nazionali cercheranno subdolamente o con la violenza di smorzare l'ondata dei sentimenti e delle passioni internazionaliste, e si daranno ostinatamente a ricostruire i vecchi organismi statali. Ed è probabile che i dirigenti inglesi, magari d'accordo con quelli americani, tentino di spingere le cose in questo senso, per riprendere la politica dell'equilibrio delle potenze nell'apparente immediato interesse del loro impero.
Le forze conservatrici, cioè i dirigenti delle istituzioni fondamentali degli stati nazionali; i quadri superiori delle forze armate, culminanti là, dove ancora esistono, nelle monarchie; quei gruppi del capitalismo monopolista che hanno legato le sorti dei loro profitti a quelli degli stati; i grandi proprietari fondiari e le alte gerarchie ecclesiastiche, che solo da una stabile società conservatrice possono vedere assicurate le loro entrate parassitarie; ed al loro seguito tutto l'innumerevole stuolo di coloro che da essi dipendono o che son anche solo abbagliati dalla loro tradizionale potenza; tutte queste forze reazionarie, già fin da oggi, sentono che l'edificio scricchiola e cercano di salvarsi. Il crollo le priverebbe di colpo di tutte le garanzie che hanno avuto fin'ora e le esporrebbe all'assalto delle forze progressiste.
Ma essi hanno uomini e quadri abili ed adusati al comando, che si batteranno accanitamente per conservare la loro supremazia. Nel grave momento sapranno presentarsi ben camuffati. Si proclameranno amanti della pace, della libertà, del benessere generale delle classi più povere. Già nel passato abbiamo visto come si siano insinuati dentro i movimenti popolari, e li abbiano paralizzati, deviati, convertiti nel preciso contrario. Senza dubbio saranno la forza più pericolosa con cui si dovrà fare i conti.
Il punto sul quale essi cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello stato nazionale. Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso, più offeso dai recenti movimenti, più facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento patriottico. In tal modo possono anche sperare di più facilmente confondere le idee degli avversari, dato che per le masse popolari l'unica esperienza politica finora acquisita è quella svolgentesi entro l'ambito nazionale, ed è perciò abbastanza facile convogliare, sia esse che i loro capi più miopi, sul terreno della ricostruzione degli stati abbattuti dalla bufera.
Se raggiungessero questo scopo avrebbero vinto. Fossero pure questi stati in apparenza largamente democratici o socialisti, il ritorno del potere nelle mani dei reazionari sarebbe solo questione di tempo. Risorgerebbero le gelosie nazionali e ciascuno stato riporrebbe di nuovo la soddisfazione delle proprie esigenze solo nella forza delle armi. Loro compito precipuo tornerebbe ad essere, a più o meno breve scadenza, quello di convertire i loro popoli in eserciti. I generali tornerebbero a comandare, i monopolisti ad approfittare delle autarchie, i corpi burocratici a gonfiarsi, i preti a tener docili le masse. Tutte le conquiste del primo momento si raggrinzerebbero in un nulla di fronte alla necessità di preparare di nuovo la guerra.
Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani.
Il crollo della maggior parte degli stati del continente sotto il rullo compressore tedesco ha già accomunato la sorte dei popoli europei, che tutti insieme soggiaceranno al dominio hitleriano, o tutti insieme entreranno, con la caduta di questo in una crisi rivoluzionaria in cui non si troveranno irrigiditi e distinti in solide strutture statali.
Gli spiriti sono già ora molto meglio disposti che in passato ad una riorganizzazione federale dell'Europa. La dura esperienza ha aperto gli occhi anche a chi non voleva vedere ed ha fatto maturare molte circostanze favorevoli al nostro ideale.
Tutti gli uomini ragionevoli riconoscono ormai che non si può mantenere un equilibrio di stati europei indipendenti con la convivenza della Germania militarista a parità di condizioni con gli altri paesi, né si può spezzettare la Germania e tenerle il piede sul collo una volta che sia vinta.
Alla prova è apparso evidente che nessun paese d'Europa può restarsene da parte mentre gli altri si battono, a nulla valendo le dichiarazioni di neutralità e i patti di non aggressione. È oramai dimostrata la inutilità, anzi la dannosità di organismi, tipo la Società delle Nazioni, che pretendano di garantire il diritto internazionale senza una forza militare capace di imporre le sue decisioni e rispettando la sovranità assoluta degli stati partecipanti. Assurdo è risultato il principio del non intervento, secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di darsi il governo dispotico che meglio crede, quasi che la costituzione interna di ogni singolo stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri paesi europei.
Insolubili sono diventati i molteplici problemi che avvelenano la vita internazionale del continente: tracciati dei confini a popolazione mista, difesa delle minoranze allogene, sbocco al mare dei paesi situati nell'interno, questione balcanica, questione irlandese, ecc:, che troverebbero nella Federazione Europea la più semplice soluzione, come l'hanno trovata in passato i corrispondenti problemi degli staterelli entrati a far parte delle più vaste unità nazionali, quando hanno perso la loro acredine, trasformandosi in problemi di rapporti fra le diverse provincie.
D'altra parte la fine del senso di sicurezza nella inattaccabilità della Gran Bretagna, che consigliava agli inglesi la «splendid isolation», la dissoluzione dell'esercito e della stessa repubblica francese, al primo serio urto delle forze tedesche – risultato che è da sperare abbia di molto smorzata la presunzione sciovinista della superiorità gallica – e specialmente la coscienza della gravità del pericolo corso di generale asservimento, sono tutte circostanze che favoriranno la costituzione di un regime federale che ponga fine all'attuale anarchia. Ed il fatto che l'Inghilterra abbia accettato il principio dell'indipendenza indiana, e la Francia abbia potenzialmente perduto, col riconoscimento della sconfitta, tutto il suo impero, rendono più agevole trovare anche una base di accordo per una sistemazione europea dei problemi coloniali.
A tutto ciò va infine aggiunta la scomparsa di alcune delle principali dinastie e la fragilità delle basi di quelle che sostengono le dinastie superstiti. Va tenuto conto, infatti, che le dinastie, considerando i diversi paesi come tradizionale appannaggio proprio, rappresentavano, con i poderosi interessi di cui erano l'appoggio, un serio ostacolo alla organizzazione razionale degli Stati Uniti d'Europa, i quali non possono poggiare che sulle costituzioni repubblicane di tutti i paesi federati.
E quando, superando l'orizzonte del vecchio continente, si abbracci in una visione d'insieme tutti i popoli che costituiscono l'umanità, bisogna pur riconoscere che la federazione europea è l'unica garanzia concepibile che i rapporti con i popoli asiatici ed americani possono svolgersi su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l'unità politica dell'intero globo.
La linea di divisione tra partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopreranno in primissima linea come strumento per realizzare l'unità internazionale.
Con la propaganda e con l'azione, cercando di stabilire in tutti i modi accordi e legami tra i movimenti simili che nei vari paesi si vanno certamente formando, occorre fin d'ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per far sorgere il nuovo organismo, che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa; per costituire un largo stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali, spezzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari, abbia gli organi e i mezzi sufficienti per fare eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni, dirette a mantener un ordine comune, pur lasciando agli stati stessi l'autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo della vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli.
Se ci sarà nei principali paesi europei un numero sufficiente di uomini che comprenderanno ciò, la vittoria sarà in breve nelle loro mani, perché la situazione e gli animi saranno favorevoli alla loro opera e di fronte avranno partiti e tendenze già tutti squalificati dalla disastrosa esperienza dell'ultimo ventennio. Poiché sarà l'ora di opere nuove, sarà anche l'ora di uomini nuovi, del movimento per l'Europa libera e unita!
III. I compiti del dopo guerra – La riforma della società
Un'Europa libera e unita è premessa necessaria per il potenziamento della civiltà moderna, di cui l'éra totalitaria rappresenta un arresto. La fine di questa era farà riprendere immediatamente in pieno il processo storico contro le disuguaglianze e i privilegi sociali. Tutte le vecchie istituzioni conservatrici, che ne impedivano l'attuazione, saranno crollanti o crollate, e questa loro crisi dovrà essere sfruttata con coraggio e decisione. La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi la emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita.
La bussola di orientamento, per i provvedimenti da prendere in tale direzione, non può più essere però il principio puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita, e tollerata solo in linea provvisoria, quando non se ne possa proprio fare a meno. La statizzazione generale dell'economia è stata la prima forma utopistica in cui le classi operaie si sono rappresentate la loro liberazione dal giogo capitalista, ma, una volta realizzata a pieno, non porta allo scopo sognato, bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell'economia, come è avvenuto in Russia.
Il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione generale non è stato che un'affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma – come avviene per forze naturali – essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime. Le gigantesche forze di progresso, che scaturiscono dall'interesse individuale, non vanno spente nella morta gora della pratica «routinière», per trovarsi poi di fronte all'insolubile problema di risuscitare lo spirito d'iniziativa con la differenziazione dei salari, e con gli altri provvedimenti del genere dello stachenovismo dell'U.R.S.S., col solo risultato di uno sgobbamento più diligente. Quelle forze vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di sviluppo e di impiego, e contemporaneamente vanno perfezionati e consolidati gli argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggiore utilità per tutta la collettività. La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio.
Questa direttiva si inserisce naturalmente nel processo di formazione di una vita economica europea liberata dagli incubi del militarismo e del burocratismo nazionali. In essa possono trovare la loro liberazione tanto i lavoratori dei paesi capitalistici oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei paesi comunisti oppressi dalla tirannide burocratica. La soluzione razionale deve prendere il posto di quella irrazionale anche nella coscienza dei lavoratori. Volendo indicare in modo più particolareggiato il contenuto di questa direttiva, ed avvertendo che la convenienza e la modalità di ogni punto programmatico dovranno essere sempre giudicate in rapporto al presupposto oramai indispensabile dell'unità europea, mettiamo in rilievo i seguenti punti:
a) non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un'attività necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori (ad esempio le industrie elettriche); le imprese che si vogliono mantenere in vita per ragioni di interesse collettivo, ma che per reggersi hanno bisogno di dazi protettivi, sussidi, ordinazioni di favore, ecc. (l'esempio più notevole di questo tipo di industrie sono in Italia ora le industrie siderurgiche); le imprese che per la grandezza dei capitali investiti ed il numero degli operai occupati, o per l'importanza del settore che dominano, possono ricattare gli organi dello stato imponendo la politica per loro più vantaggiosa (es. industrie minerarie, grandi istituti bancari, industrie degli armamenti). È questo il campo in cui si dovrà procedere senz'altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti;
b) le caratteristiche che hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il diritto di successione hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà distribuire, durante una crisi rivoluzionaria, in senso egualitario per eliminare i ceti parassitari e per dare ai lavoratori gl'istrumenti di produzione di cui abbisognano, onde migliorarne le condizioni economiche e far loro raggiungere una maggiore indipendenza di vita. Pensiamo cioè ad una riforma agraria che, passando la terra a chi la coltiva, aumenti enormemente il numero dei proprietari, e ad una riforma industriale che estenda la proprietà dei lavoratori, nei settori non statizzati, con le gestioni cooperative, l'azionariato operaio, ecc.;
c) i giovani vanno assistiti con le provvidenze necessarie per ridurre al minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita. In particolare la scuola pubblica dovrà dare la possibilità effettiva di proseguire gli studi fino ai gradi superiori ai più idonei, invece che ai più ricchi; e dovrà preparare, in ogni branca di studi per l'avviamento ai diversi mestieri e alla diverse attività liberali e scientifiche, un numero di individui corrispondente alla domanda del mercato, in modo che le rimunerazioni medie risultino pressappoco eguali, per tutte le categorie professionali, qualunque possano essere le divergenze tra le rimunerazioni nell'interno delle categorie, a seconda delle diverse capacità individuali;
d) la potenzialità quasi senza limiti della produzione in massa dei generi di prima necessità con la tecnica moderna, permette ormai di assicurare a tutti, con un costo sociale relativamente piccolo, il vitto, l'alloggio e il vestiario col minimo di conforto necessario per conservare la dignità umana. La solidarietà sociale verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica dovrà perciò manifestarsi non con le forme caritative, sempre avvilenti, e produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio. Così nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro iugulatori;
e) la liberazione delle classi lavoratrici può aver luogo solo realizzando le condizioni accennate nei punti precedenti: non lasciandole ricadere nella politica economica dei sindacati monopolistici, che trasportano semplicemente nel campo operaio i metodi sopraffattori caratteristici specialmente del grande capitale. I lavoratori debbono tornare ad essere liberi di scegliere i fiduciari per trattare collettivamente le condizioni a cui intendono prestare la loro opera, e lo stato dovrà dare i mezzi giuridici per garantire l'osservanza dei patti conclusi; ma tutte le tendenze monopolistiche potranno essere efficacemente combattute, una volta che saranno realizzate quelle trasformazioni sociali.
Questi sono i cambiamenti necessari per creare, intorno al nuovo ordine, un larghissimo strato di cittadini interessati al suo mantenimento e per dare alla vita politica una consolidata impronta di libertà, impregnata di un forte senso di solidarietà sociale. Su queste basi le libertà politiche potranno veramente avere un contenuto concreto e non solo formale per tutti, in quanto la massa dei cittadini avrà una indipendenza ed una conoscenza sufficiente per esercitare un efficace e continuo controllo sulla classe governante.
Sugli istituti costituzionali sarebbe superfluo soffermarci, poiché, non potendosi prevedere le condizioni in cui dovranno sorgere ed operare, non faremmo che ripetere quello che tutti già sanno sulla necessità di organi rappresentativi per la formazione delle leggi, dell'indipendenza della magistratura – che prenderà il posto dell'attuale – per l'applicazione imparziale delle leggi emanate, della libertà di stampa e di associazione, per illuminare l'opinione pubblica e dare a tutti i cittadini la possibilità di partecipare effettivamente alla vita dello stato. Su due sole questioni è necessario precisare meglio le idee, per la loro particolare importanza in questo momento nel nostro paese, cioè sui rapporti dello stato con la chiesa e sul carattere della rappresentanza politica:
a) la Chiesa cattolica continua inflessibilmente a considerarsi unica società perfetta, a cui lo stato dovrebbe sottomettersi, fornendole le armi temporali per imporre il rispetto della sua ortodossia. Si presenta come naturale alleata di tutti i regimi reazionari, di cui cerca di approfittare per ottenere esenzioni e privilegi, per ricostruire il suo patrimonio, per stendere di nuovo i suoi tentacoli sulla scuola e sull'ordinamento della famiglia. Il concordato con cui in Italia il Vaticano ha concluso l'alleanza col fascismo andrà senz'altro abolito, per affermare il carattere puramente laico dello stato, e per fissare in modo inequivocabile la supremazia dello stato sulla vita civile. Tutte le credenze religiose dovranno essere ugualmente rispettate, ma lo stato non dovrà più avere un bilancio dei culti, e dovrà riprendere la sua opera educatrice per lo sviluppo dello spirito critico;
b) la baracca di cartapesta che il fascismo ha costruito con l'ordinamento corporativo cadrà in frantumi, insieme alle altre parti dello stato totalitario. C'è chi ritiene che da questi rottami si potrà domani trarre il materiale per il nuovo ordine costituzionale. Noi non lo crediamo. Nello stato totalitario le Camere corporative sono una beffa, che corona il controllo poliziesco dei lavoratori. Se anche però le Camere corporative fossero la sincera espressione delle diverse categorie dei produttori, gli organi di rappresentanza delle diverse categorie professionali non potrebbero mai essere qualificati per trattare questioni di politica generale, e nelle questioni più propriamente economiche diverrebbero organi di sopraffazione delle categorie sindacalmente più potenti.
Ai sindacati spetteranno ampie funzioni di collaborazione con gli organi statali, incaricati di risolvere i problemi che più direttamente li riguardano, ma è senz'altro da escludere che ad essi vada affidata alcuna funzione legislativa, poiché ne risulterebbe un'anarchia feudale nella vita economica, concludentesi in un rinnovato dispotismo politico. Molti che si sono lasciati prendere ingenuamente dal mito del corporativismo potranno e dovranno essere attratti all'opera di rinnovamento, ma occorrerà che si rendano conto di quanto assurda sia la soluzione da loro confusamente sognata. Il corporativismo non può avere vita concreta che nella forma assunta negli stati totalitari, per irreggimentare i lavoratori sotto funzionari che ne controllano ogni mossa nell'interesse della classe governante.
IV. La situazione rivoluzionaria: vecchie e nuove correnti
La caduta dei regimi totalitari significherà per interi popoli l'avvento della «libertà» poiché sarà scomparso ogni freno ed automaticamente regneranno amplissime libertà di parola e di associazione.
Sarà il trionfo delle tendenze democratiche. Esse hanno innumerevoli sfumature che vanno da un liberalismo molto conservatore, fino al socialismo e all'anarchia. Credono nella «generazione spontanea» degli avvenimenti e delle istituzioni, nella bontà assoluta degli impulsi che vengono dal basso. Non vogliono forzare la mano alla «storia» al «popolo» al «proletariato» o come altro chiamano il loro dio. Auspicano la fine delle dittature immaginandola come la restituzione al popolo degli imprescrittibili diritti di autodeterminazione. Il coronamento dei loro sogni è un'assemblea costituente eletta col più esteso suffragio e col più scrupoloso rispetto degli elettori, la quale decida che costituzione il popolo debba darsi. Se il popolo è immaturo se ne darà una cattiva, ma correggerla si potrà solo mediante una costante opera di convinzione.
I democratici non rifuggono per principio dalla violenza, ma la vogliono adoperare solo quando la maggioranza sia convinta della sua indispensabilità, cioè propriamente quando non è più altro che un pressoché superfluo puntino da mettere sugli i. Sono perciò dirigenti adatti solo nelle epoche di ordinaria amministrazione, in cui un popolo è nel suo complesso convinto della bontà delle istituzioni fondamentali, che debbono solo essere ritoccate in aspetti relativamente secondari. Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente. La pietosa impotenza dei democratici nelle rivoluzioni russa, tedesca, spagnola, sono tre dei più recenti esempi.
In tali situazioni, caduto il vecchio apparato statale, con le sue leggi e la sua amministrazione, pullulano immediatamente, con sembianza di vecchia legalità o sprezzandola, una quantità di assemblee e rappresentanze popolari in cui convergono e si agitano tutte le forze sociali progressiste. Il popolo ha sì alcuni bisogni fondamentali da soddisfare, ma non sa con precisione cosa volere e cosa fare. Mille campane suonano alle sue orecchie, con i suoi milioni di teste non riesce a raccapezzarsi, e si disgrega in una quantità di tendenze in lotta tra loro.
Nel momento in cui occorre la massima decisione ed audacia, i democratici si sentono smarriti non avendo dietro uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni; pensano che loro dovere sia di formare quel consenso, e si presentano come predicatori esortanti, laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare; perdono le occasioni favorevoli al consolidamento del nuovo regime, cercando di far funzionare subito organi che presuppongono una lunga preparazione e sono adatti ai periodi di relativa tranquillità; danno ai loro avversari armi di cui quelli si servono poi per rovesciarli; rappresentano insomma, nelle loro mille tendenze, non già la volontà di rinnovamento, ma le confuse volontà regnanti in tutte le menti, che, paralizzandosi a vicenda, preparano il terreno propizio allo sviluppo della reazione. La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria.
Man mano che i democratici logorassero nelle loro logomachie la loro prima popolarità di assertori della libertà, mancando ogni seria rivoluzione politica e sociale, si andrebbero immancabilmente ricostituendo le istituzioni politiche pretotalitarie, e la lotta tornerebbe a svilupparsi secondo i vecchi schemi della contrapposizione delle classi.
Il principio secondo il quale la lotta di classe è il termine a cui van ridotti tutti i problemi politici, ha costituito la direttiva fondamentale, specialmente degli operai delle fabbriche, ed ha giovato a dare consistenza alla loro politica, finché non erano in questione le istituzioni fondamentali della società. Ma si converte in uno strumento di isolamento del proletariato, quando si imponga di trasformare l'intera organizzazione della società. Gli operai educati classisticamente non sanno allora vedere che le loro particolari rivendicazioni di classe, o di categoria, senza curarsi del come connetterle con gli interessi degli altri ceti, oppure aspirano alla unilaterale dittatura della loro classe, per realizzare l'utopistica collettivizzazione di tutti gli strumenti materiali di produzione, indicata da una propaganda secolare come il rimedio sovrano a tutti i loro mali. Questa politica non riesce a far presa su nessun altro strato fuorché sugli operai, i quali così privano le altre forze progressive del loro sostegno, e le lasciano cadere in balia della reazione, che abilmente le organizza per spezzare le reni allo stesso movimento proletario.
Delle varie tendenze proletarie, seguaci della politica classista e dell'ideale collettivista, i comunisti hanno riconosciuto la difficoltà di ottenere un seguito di forze sufficienti per vincere, e perciò si sono – a differenza degli altri partiti popolari – trasformati in un movimento rigidamente disciplinato, che sfrutta quel che residua del mito russo per organizzare gli operai, ma non prende leggi da essi, e li utilizza nelle più disparate manovre.
Questo atteggiamento rende i comunisti, nelle crisi rivoluzionarie, più efficienti dei democratici; ma tenendo essi distinte quanto più possono le classi operaie dalle altre forze rivoluzionarie – col predicare che la loro «vera» rivoluzione è ancora da venire – costituiscono nei momento decisivi un elemento settario che indebolisce il tutto. Inoltre la loro assidua dipendenza dallo stato russo, che li ha ripetutamente adoperati senza scrupoli per il perseguimento della sua politica nazionale, impedisce loro di perseguire una politica con un minimo di continuità. Hanno sempre bisogno di nascondersi dietro un Karoly, un Blum, un Negrin, per andare poi fatalmente in rovina dietro i fantocci democratici adoperati, poiché il potere si consegue e si mantiene non semplicemente con la furberia, ma con la capacità di rispondere in modo organico e vitale alle necessità della società moderna. La loro scarsa consistenza si palesa invece senza possibilità di equivoci quando, venendo a mancare il camuffamento, fanno regolarmente mostra di un puro verbalismo estremista.
Se la lotta restasse domani ristretta nel tradizionale campo nazionale, sarebbe molto difficile sfuggire alle vecchie aporie. Gli stati nazionali hanno infatti già così profondamente pianificato le proprie rispettive economie che la questione centrale diverrebbe ben presto quella di sapere quale gruppo di interessi economici, cioè quale classe, dovrebbe detenere le leve di comando del piano. Il fronte delle forze progressiste sarebbe facilmente frantumato nella rissa tra classi e categorie economiche. Con le maggiori probabilità i reazionari sarebbero coloro che ne trarrebbero profitto. Ma anche i comunisti, nonostante le loro deficienze, potrebbero avere il loro quarto d'ora, convogliare le masse stanche, deluse, assumere il potere ed adoperarlo per realizzare, come in Russia, il dispotismo burocratico su tutta la vita economica, politica e spirituale del paese.
Una situazione dove i comunisti contassero come forza politica dominante significherebbe non uno sviluppo in senso rivoluzionario, ma già il fallimento del rinnovamento europeo.
Larghissime masse restano ancora influenzate o influenzabili dalle vecchie tendenze democratiche e comuniste, perché non scorgono nessuna prospettiva di metodi e di obiettivi nuovi. Tali tendenze sono però formazioni politiche del passato; da tutti gli sviluppi storici recenti nulla hanno appreso, nulla dimenticato; incanalano le forze progressiste lungo strade che non possono serbare che delusioni e sconfitte; di fronte alle esigenze più profonde del domani costituiscono un ostacolo e debbono o radicalmente modificarsi o sparire.
Un vero movimento rivoluzionario dovrà sorgere da coloro che hanno saputo criticare le vecchie impostazioni politiche; dovrà sapere collaborare con le forze democratiche, con quelle comuniste, ed in genere con quanti cooperano alla disgregazione del totalitarismo, ma senza lasciarsi irretire dalla loro prassi politica.
Il partito rivoluzionario non può essere dilettantescamente improvvisato nel momento decisivo, ma deve sin da ora cominciare a formarsi almeno nel suo atteggiamento politico centrale, nei suoi quadri generali e nelle prima direttive d'azione. Esso non deve rappresentare una coalizione eterogenea di tendenze, riunite solo transitoriamente e negativamente, cioè per il loro passato antifascista e nella semplice attesa del disgregamento del totalitarismo, pronte a disperdersi ciascuna per la sua strada una volta raggiunta quella caduta. Il partito rivoluzionario deve sapere invece che solo allora comincerà veramente la sua opera e deve perciò essere costituito di uomini che si trovino d'accordo sui principali problemi del futuro. Deve penetrare con la sua propaganda metodica ovunque ci siano degli oppressi dell'attuale regime, e, prendendo come punto di partenza quello volta volta sentito come il più doloroso dalle singole persone o classi, mostrare come esso si connetta con altri problemi e quale possa esserne la vera soluzione. Ma dalla schiera sempre crescente dei suoi simpatizzanti deve attingere e reclutare nell'organizzazione del partito solo coloro che abbiano fatto della rivoluzione europea lo scopo principale della loro vita, che disciplinatamente realizzino giorno per giorno il lavoro necessario, provvedano oculatamente alla sicurezza, continuità ed efficacia di esso, anche nella situazione di più dura illegalità, e costituiscano così la solida rete che dia consistenza alla più labile sfera dei simpatizzanti.
Pur non trascurando nessuna occasione e nessun campo per seminare la sua parola, esso deve rivolgere la sua operosità in primissimo luogo a quegli ambienti che sono i più importanti come centri di diffusione di idee e come centri di reclutamento di uomini combattivi; anzitutto verso i due gruppi sociali più sensibili nella situazione odierna, e decisivi in quella di domani, vale a dire la classe operaia e i ceti intellettuali. La prima è quella che meno si è sottomessa alla ferula totalitaria, che sarà la più pronta a riorganizzare le proprie file. Gli intellettuali, particolarmente i più giovani, sono quelli che si sentono spiritualmente soffocare e disgustare dal regnante dispotismo. Man mano altri ceti saranno inevitabilmente attratti nel movimento generale.
Qualsiasi movimento che fallisca nel compito di alleanza di queste forze è condannato alla sterilità, poiché, se è un movimento di soli intellettuali, sarà privo di quella forza di massa necessaria per travolgere le resistenze reazionarie, sarà anzi diffidente e diffidato rispetto alla classe operaia; ed anche se animato da sentimenti democratici, sarà proclive a scivolare, di fronte alle difficoltà, sul terreno della mobilitazione di tutte le altre classi contro gli operai, cioè verso una restaurazione fascista. Se poggerà solo sulla classe operaia sarà privo di quella chiarezza di pensiero che non può venire che dagli intellettuali, e che è necessaria per ben distinguere i nuovi compiti e le nuove vie: rimarrà prigioniero del vecchio classismo, vedrà nemici dappertutto, e sdrucciolerà sulla dottrinaria soluzione comunista.
Durante la crisi rivoluzionaria spetta a questo partito organizzare e dirigere le forze progressiste, utilizzando tutti quegli organi popolari che si formano spontaneamente come crogioli ardenti in cui vanno a mischiarsi le forze rivoluzionarie, non per emettere plebisciti, ma in attesa di essere guidate.
Esso attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto, non da una preventiva consacrazione da parte della ancora inesistente volontà popolare, ma nella sua coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna. Dà in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle nuove masse. Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato ed attorno ad esso la nuova democrazia.
Non è da temere che un tale regime rivoluzionario debba necessariamente sbocciare in un nuovo dispotismo. Vi sbocca se è venuto modellando un tipo di società servile. Ma se il partito rivoluzionario andrà creando con polso fermo fin dai primissimi passi le condizioni per una vita libera, in cui tutti i cittadini possano veramente partecipare alla vita dello stato, la sua evoluzione sarà, anche se attraverso eventuali secondarie crisi politiche, nel senso di una progressiva comprensione ed accettazione da parte di tutti del nuovo ordine, e perciò nel senso di una crescente possibilità di funzionamento di istituzioni politiche libere.
Oggi è il momento in cui bisogna saper gettare via vecchi fardelli divenuti ingombranti, tenersi pronti al nuovo che sopraggiunge, così diverso da tutto quello che si era immaginato, scartare gli inetti tra i vecchi e suscitare nuove energie tra i giovani. Oggi si cercano e si incontrano, cominciando a tessere la trama del futuro, coloro che hanno scorto i motivi dell'attuale crisi della civiltà europea, e che perciò raccolgono l'eredità di tutti i movimenti di elevazione dell'umanità, naufragati per incomprensione del fine da raggiungere o dei mezzi come raggiungerlo.
La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà.
PREFAZIONE
I presenti scritti sono stati concepiti e redatti nell'isola di Ventotene, negli anni 1941 e 1942. In quell'ambiente d'eccezione, fra le maglie di una rigidissima disciplina, attraverso un'informazione che con mille accorgimenti si cercava di rendere il più possibile completa, nella tristezza dell'inerzia forzata e nell'ansia della prossima liberazione, andava maturando in alcune menti un processo di ripensamento di tutti i problemi che avevano costituito il motivo stesso dell'azione compiuta e dell'atteggiamento preso nella lotta.
La lontananza dalla vita politica concreta permetteva uno sguardo più distaccato, e consigliava di rivedere le posizioni tradizionali, ricercando i motivi degli insuccessi passati non tanto in errori tecnici di tattica parlamentare o rivoluzionaria, od in una generica «immaturità» della situazione, quanto in insufficienze dell'impostazione generale, e nell'aver impegnato la lotta lungo le consuete linee di frattura, con troppo scarsa attenzione al nuovo che veniva modificando la realtà.
Preparandosi a combattere con efficienza la grande battaglia che si profilava per il prossimo avvenire, si sentiva il bisogno non semplicemente di correggere gli errori del passato, ma di rienunciare i termini dei problemi politici con mente sgombra da preconcetti dottrinari o da miti di partito.
Fu così che si fece strada, nella mente di alcuni, l'idea centrale che la contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti che travagliano la nostra società, è l'esistenza di stati sovrani, geograficamente, economicamente, militarmente individuati, consideranti gli altri stati come concorrenti e potenziali nemici, viventi gli uni rispetto agli altri in una situazione di perpetuo bellum omnium contra omnes.
I motivi per cui questa idea, di per sé non nuova, assumeva un aspetto di novità nelle condizioni e nell'occasione in cui veniva pensata, sono vari:
1) Anzitutto, la soluzione internazionalista, che figura nel programma di tutti i partiti politici progressisti, viene da essi considerata, in un certo senso, come una conseguenza necessaria e quasi automatica del raggiungimento dei fini che ciascuno di essi si propone. I democratici ritengono che l'instaurazione, nell'ambito di ciascun paese, del regime da essi propugnato, condurrebbe sicuramente alla formazione di quella coscienza unitaria che, superando le frontiere nel campo culturale e morale, costituirebbe la premessa che essi ritengono indispensabile ad una libera unione di popoli anche nel campo politico ed economico. E i socialisti, dal canto loro, pensano che l'instaurazione di regimi di dittatura del proletariato nei vari stati, condurrebbe di per sé ad uno stato internazionale collettivista.
Ora, una analisi del concetto moderno di stato e dell'insieme di interessi e di sentimenti che ad esso sono legati, mostra chiaramente che, benché le analogie di regime interno possano facilitare i rapporti di amicizia e di collaborazione fra stato e stato, non è affatto detto che portino automaticamente e neppure progressivamente alla unificazione, finché esistano interessi e sentimenti collettivi legati al mantenimento di una unità chiusa all'interno delle frontiere. Sappiamo per esperienza che sentimenti sciovinistici ed interessi protezionistici possono facilmente condurre all'urto e alla concorrenza anche tra due democrazie; e non è detto che uno stato socialista ricco debba necessariamente accettare di mettere in comune le proprie risorse con un altro stato socialista molto più povero, per il solo fatto che in esso vige un regime interno analogo al proprio.
L'abolizione delle frontiere politiche ed economiche fra stato e stato non discende dunque necessariamente dall'instaurazione contemporanea di un dato regime interno in ciascuno stato; ma è un problema a sé stante, che va aggredito con mezzi propri e ad esso attagliantisi. Non si può essere socialisti, è vero, senza essere insieme internazionalisti; ma ciò per un legame ideologico, più che per una necessità politica ed economica; e dalla vittoria socialista nei singoli stati non discende necessariamente lo stato internazionale.
2) Ciò che spingeva inoltre ad accentuare in modo autonomo la tesi federalista, era il fatto che i partiti politici esistenti, legati ad un passato di lotte combattute nell'ambito di ciascuna nazione, sono avvezzi, per consuetudine e per tradizione, a porsi tutti i problemi partendo dal tacito presupposto dell'esistenza dello stato nazionale, ed a considerare i problemi dell'ordinamento internazionale come questioni di «politica estera», da risolversi mediante azioni diplomatiche e accordi fra i vari governi. Questo atteggiamento è in parte causa, in parte conseguenza di quello prima accennato, secondo cui, una volta afferrate le redini di comando nel proprio paese, l'accordo e l'unione con regimi affini in altri paesi è cosa che viene da sé, senza bisogno di dar luogo ad una lotta politica a ciò espressamente dedicata.
Negli autori dei presenti scritti si era invece radicata la convinzione che chi voglia proporsi il problema dell'ordinamento internazionale come quello centrale dell'attuale epoca storica, e consideri la soluzione di esso come la premessa necessaria per la soluzione di tutti i problemi istituzionali, economici, sociali che si impongono alla nostra società, debba di necessità considerare da questo punto di vista tutte le questioni riguardanti i contrasti politici interni e l'atteggiamento di ciascun partito, anche riguardo alla tattica e alla strategia nella lotta quotidiana. Tutti i problemi, da quello delle libertà costituzionali a quello della lotta di classe, da quello della pianificazione a quello della presa del potere e dell'uso di esso, ricevono una nuova luce se vengono posti partendo dalla premessa che la prima mèta da raggiungere è quella di un ordinamento unitario nel campo internazionale. La stessa manovra politica, l'appoggiarsi all'una od all'altra delle forze in giuoco, l'accentuare l'una o l'altra parola d'ordine, assume aspetti ben diversi, a seconda che si consideri come scopo essenziale la presa del potere e l'attuazione di determinate riforme nell'ambito di ciascun singolo stato, oppure la creazione delle premesse economiche, politiche, morali per la instaurazione di un ordinamento federale che abbracci tutto il continente.
3) Un altro motivo ancora — e forse il più importante — era costituito dal fatto che l'ideale di una Federazione Europea, preludio di una Federazione Mondiale, mentre poteva apparire lontana utopia ancora qualche anno fa, si presenta oggi, alla fine di questa guerra, come una mèta raggiungibile e quasi a portata di mano. Nel totale rimescolamento di popoli che questo conflitto ha provocato in tutti i paesi soggetti all'occupazione tedesca, nella necessità di ricostruire su basi nuove una economia quasi totalmente distrutta, e di rimettere sul tappeto tutti i problemi riguardanti i confini politici, le barriere doganali, le minoranze etniche ecc.; nel carattere stesso di questa guerra, in cui l'elemento nazionale è stato così spesso sopravanzato dall'elemento ideologico, in cui si sono visti piccoli e medi stati rinunziare a gran parte della loro sovranità a favore degli stati più forti, e in cui da parte degli stessi fascisti il concetto di «spazio vitale» si è sostituito a quello di «indipendenza nazionale»; in tutti questi elementi sono da ravvisare dei dati che rendono attuale come non mai, in questo dopoguerra, il problema dell'ordinamento federale dell'Europa.
Forze provenienti da tutte le classi sociali, per motivi sia economici sia ideali, possono essere interessate ad esso. Ad esso ci si potrà avvicinare per via di trattative diplomatiche e per via di agitazione popolare; promuovendo fra le classi colte lo studio dei problemi ad esso attinenti, e provocando stati di fatto rivoluzionari, avvenuti i quali non sia più possibile tornare indietro; influendo sulle sfere dirigenti degli stati vincitori, ed agitando negli stati vinti la parola che solo in una Europa libera e unita essi possono trovare la loro salvezza ed evitare le disastrose conseguenze della sconfitta.
Appunto per questo è sorto il nostro Movimento. È la preminenza, l'anteriorità di questo problema rispetto a tutti quelli che si impongono nell'epoca in cui ci stiamo inoltrando; è la sicurezza che, se lasceremo risolidificare la situazione nei vecchi stampi nazionalistici, l'occasione sarà persa per sempre, e nessuna pace e benessere duraturo ne potrà avere il nostro continente; è tutto questo che ci ha spinto a creare un'organizzazione autonoma, allo scopo di propugnare l'idea della Federazione Europea come mèta realizzabile nel prossimo dopoguerra.
Non ci nascondiamo le difficoltà della cosa, e la potenza delle forze che opereranno nel senso contrario; ma è la prima volta, crediamo, che questo problema si pone sul tappeto della lotta politica, non come un lontano ideale, ma come una impellente, tragica necessità.
Il nostro Movimento, che vive oramai da circa due anni della difficile vita clandestina sotto l'oppressione fascista e nazista; i cui aderenti provengono dalle file dei militanti dell'antifascismo e sono tutti in linea nella lotta armata per la libertà; che ha già pagato il suo duro contributo di carcere per la causa comune; il nostro Movimento non è e non vuol essere un partito politico. Così come si è venuto sempre più nettamente caratterizzando, esso vuole operare sui vari partiti politici e nell'interno di essi, non solo affinché l'istanza internazionalista venga accentuata, ma anche e principalmente affinché tutti i problemi della sua vita politica vengano impostati partendo da questo nuovo angolo visuale, a cui finora sono stati così poco avvezzi.
Non siamo un partito politico perché, pur promuovendo attivamente ogni studio riguardante l'assetto istituzionale, economico, sociale della Federazione Europea, e pur prendendo parte attiva alla lotta per la sua realizzazione e preoccupandoci di scoprire quali forze potranno agire in favore di essa nella futura congiuntura politica, non vogliamo pronunciarci ufficialmente sui particolari istituzionali, sul grado maggiore o minore di collettivizzazione economica, sul maggiore o minore decentramento amministrativo ecc. ecc., che dovranno caratterizzare il futuro organismo federale. Lasciamo che nel seno del nostro Movimento questi problemi vengano ampiamente e liberamente discussi, e che tutte le tendenze politiche, da quella comunista a quella liberale, siano presso di noi rappresentate. Di fatto, i nostri aderenti militano quasi tutti in qualcuno dei partiti politici progressivi: tutti si accordano nel propugnare quelli che sono i principii basilari di una libera Federazione Europea, non basata su egemonie di sorta, né su ordinamenti totalitari, e dotata di quella solidità strutturale che non la riduca ad una semplice Società delle Nazioni.
Tali principi si possono riassumere nei seguenti punti: esercito unico federale, unità monetaria, abolizione delle barriere doganali e delle limitazioni all'emigrazione tra gli stati appartenenti alla Federazione, rappresentanza diretta dei cittadini ai consessi federali, politica estera unica.
In questi due anni di vita, il nostro Movimento si è largamente diffuso fra i gruppi ed i partiti politici antifascisti. Alcuni di essi ci hanno espresso pubblicamente la loro adesione e la loro simpatia. Altri ci hanno chiamato a collaborare alle loro formulazioni programmatiche. Non è forse presuntuoso dire che è in parte merito nostro, se i problemi della Federazione Europea vengono così spesso trattati nella stampa clandestina italiana. Il nostro giornale, L'Unità Europea, segue con attenzione gli avvenimenti della politica interna ed internazionale, prendendo posizione di fronte ad essi con assoluta indipendenza di giudizio.
I presenti scritti, frutto dell'elaborazione di idee che ha dato luogo alla nascita del nostro Movimento, non rappresentano però che l'opinione dei loro autori, e non costituiscono affatto una presa di posizione del Movimento stesso. Vogliono solo essere una proposizione di temi di discussione a coloro che vogliono ripensare tutti i problemi della vita politica internazionale tenendo conto delle più recenti esperienze ideologiche e politiche, dei risultati più aggiornati della scienza economica, delle più sensate e ragionevoli prospettive per l'avvenire.
Saranno presto seguiti da altri studi. Il nostro augurio è che possano suscitare fermento di idee; e che, nella presente atmosfera arroventata dall'impellente necessità dell'azione, portino un contributo di chiarificazione che renda l'azione sempre più decisa, cosciente e responsabile.
Il Movimento italiano
per la federazione europea
Roma, 22 Gennaio 1944.
PER UN’EUROPA LIBERA E UNITA
Progetto d’un manifesto
I. — LA CRISI DELLA CIVILTÀ MODERNA.
La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l'uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico a tutti gli aspetti della vita sociale, che non lo rispettassero.
1°) Si è affermato l'eguale diritto a tutte le nazioni di organizzarsi in stati indipendenti. Ogni popolo, individuato dalle sue caratteristiche etniche, geografiche, linguistiche e storiche, doveva trovare nell'organismo statale creato per proprio conto, secondo la sua particolare concezione della vita politica, lo strumento per soddisfare nel modo migliore i suoi bisogni, indipendentemente da ogni intervento estraneo. L'ideologia dell'indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso; ha fatto superare i meschini campanilismi in un senso di più vasta solidarietà contro l'oppressione degli stranieri dominatori; ha eliminato molti degli inciampi che ostacolavano la circolazione degli uomini e delle merci; ha fatto estendere entro il territorio di ciascun nuovo stato alle popolazioni più arretrate le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili. Essa portava però in sé i germi dell'imperialismo capitalista, che la nostra generazione ha visto ingigantire, sino alla formazione degli stati totalitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali.
La nazione non è ora più considerata come lo storico prodotto della convivenza di uomini che, pervenuti grazie ad un lungo processo ad una maggiore unità di costumi e di aspirazioni, trovano nel loro stato la forma più efficace per organizzare la vita collettiva entro il quadro di tutta la società umana; è invece divenuta un'entità divina, un organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al proprio sviluppo, senza in alcun modo curarsi del danno che gli altri possano risentirne. La sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di dominio di ciascuno di essi, poiché ciascuno si sente minacciato dalla potenza degli altri e considera suo «spazio vitale» territori sempre più vasti, che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza, senza dipendere da alcuno. Questa volontà di dominio non potrebbe acquetarsi che nella egemonia dello stato più forte su tutti gli altri asserviti.
In conseguenza di ciò, lo stato, da tutelatore della libertà dei cittadini, si è trasformato in padrone di sudditi tenuti a servizio, con tutte le facoltà per renderne massima l'efficienza bellica. Anche nei periodi di pace, considerati come soste per la preparazione alle inevitabili guerre successive, la volontà dei ceti militari predomina ormai in molti paesi su quella dei ceti civili, rendendo sempre più difficile il funzionamento di ordinamenti politici liberi: la scuola, la scienza, la produzione, l'organismo amministrativo sono principalmente diretti ad aumentare il potenziale bellico; le madri vengono considerate come fattrici di soldati, ed in conseguenza premiate con gli stessi criteri con i quali alle mostre si premiano le bestie prolifiche; i bambini vengono educati fin dalla più tenera età al mestiere delle armi e all'odio verso gli stranieri, le libertà individuali si riducono a nulla, dal momento che tutti sono militarizzati e continuamente chiamati a prestare servizio militare; le guerre a ripetizione costringono ad abbandonare la famiglia, l'impiego, gli averi, ed a sacrificare la vita stessa per obbiettivi di cui nessuno capisce veramente il valore; in poche giornate vengono distrutti i risultati di decenni di sforzi compiuti per aumentare il benessere collettivo.
Gli stati totalitari sono quelli che hanno realizzato nel modo più coerente l'unificazione di tutte le forze, attuando il massimo di accentramento e di autarchia, e si sono perciò dimostrati gli organismi più adatti all'odierno ambiente internazionale. Basta che una nazione faccia un passo in avanti verso un più accentuato totalitarismo, perché sia seguita dalle altre trascinate nello stesso solco dalla volontà di sopravvivere.
2°) Si è affermato l'eguale diritto di tutti i cittadini alla formazione della volontà dello stato. Questa doveva così risultare la sintesi delle mutevoli esigenze economiche e ideologiche di tutte le categorie sociali liberamente espresse. Tale organizzazione politica ha permesso di correggere o almeno di attenuare molte delle più stridenti ingiustizie ereditarie dei regimi passati. Ma la libertà di stampa e di associazione, e la progressiva estensione del suffragio, rendevano sempre più difficile la difesa dei vecchi privilegi, mantenendo il sistema rappresentativo.
I nullatenenti a poco a poco imparavano a servirsi di questi strumenti per dare l'assalto ai diritti acquisiti dalle classi abbienti; le imposte sociali sui redditi non guadagnati e sulle successioni, le aliquote progressive sulle maggiori fortune, la esenzione dei redditi minimi e dei beni di prima necessità, la gratuità della scuola pubblica, l'aumento delle spese di assistenza e di previdenza sociale, le riforme agrarie, il controllo delle fabbriche, minacciavano i ceti privilegiati nelle loro più fortificate cittadelle.
Anche i ceti privilegiati che avevano consentito all'eguaglianza dei diritti politici, non potevano ammettere che le classi diseredate se ne valessero per cercare di realizzare quell'uguaglianza di fatto che avrebbe dato a tali diritti un contenuto concreto di effettiva libertà. Quando, dopo la fine della prima guerra mondiale, la minaccia divenne troppo grave, fu naturale che tali ceti applaudissero calorosamente ed appoggiassero l'instaurazioni delle dittature, che toglievano le armi legali di mano ai loro avversari.
D'altra parte la formazione di giganteschi complessi industriali e bancari e di sindacati riunenti sotto un'unica direzione interi eserciti di lavoratori, sindacati e complessi che premevano sul governo per ottenere la politica più rispondente ai loro particolari interessi, minacciava di dissolvere lo stato stesso in tante baronie economiche in acerba lotta fra loro. Gli ordinamenti democratico liberali, divenendo lo strumento di cui questi gruppi si servivano per meglio sfruttare l'intera collettività, perdevano sempre più il loro prestigio, e così si diffondeva la convinzione che solamente lo stato totalitario, abolendo le libertà popolari, potesse in qualche modo risolvere i conflitti di interessi che le istituzioni politiche esistenti non riuscivano più a contenere.
Di fatto, poi, i regimi totalitari hanno consolidato in complesso la posizione delle varie categorie sociali nei punti volta a volta raggiunti, ed hanno precluso col controllo poliziesco di tutta la vita dei cittadini e con la violenta eliminazione di tutti i dissenzienti, ogni possibilità legale di ulteriore correzione dello stato di cose vigenti. Si è così assicurata l'esistenza del ceto assolutamente parassitario dei proprietari terrieri assenteisti e dei redditieri che contribuiscono alla produzione sociale solo nel tagliare le cedole dei loro titoli; dei ceti monopolistici e delle società a catena che sfruttano i consumatori, e fanno volatilizzare i denari dei piccoli risparmiatori; dei plutocrati che, nascosti dietro le quinte, tirano i fili degli uomini politici per dirigere tutta la macchina dello stato a proprio esclusivo vantaggio, sotto l'apparenza del perseguimento dei superiori interessi nazionali. Sono conservate le colossali fortune di pochi e la miseria delle grandi masse, escluse da ogni possibilità di godere i frutti della moderna cultura. È salvato, nelle sue linee sostanziali, un regime economico in cui le riserve materiali e le forze di lavoro, che dovrebbero essere rivolte a soddisfare i bisogni fondamentali per lo sviluppo delle energie vitali umane, vengono invece indirizzate alla soddisfazione dei desideri più futili di coloro che sono in grado di pagare i prezzi più alti; un regime economico in cui, col diritto di successione, la potenza del denaro si perpetua nello stesso ceto, trasformandosi in un privilegio senza alcuna corrispondenza al valore sociale dei servizi effettivamente prestati, e il campo delle possibilità proletarie resta così ridotto, che per vivere i lavoratori sono spesso costretti a lasciarsi sfruttare da chi offra loro una qualsiasi possibilità di impiego.
Per tenere immobilizzate e sottomesse le classi operaie, i sindacati sono stati trasformati, da liberi organismi di lotta, diretti da individui che godevano la fiducia degli associati, in organi di sorveglianza poliziesca, sotto la direzione di impiegati scelti dal gruppo governante e verso esso solo responsabili. Se qualche correzione viene fatta a un tale regime economico, è sempre solo dettata dalle esigenze del militarismo, che hanno confluito con le reazionarie aspirazioni dei ceti privilegiati nel far sorgere e consolidare gli stati totalitari.
3°) Contro il dogmatismo autoritario, si è affermato il valore permanente dello spirito critico. Tutto quello che veniva asserito, doveva dare ragione di sé o scomparire. Alla metodicità di questo spregiudicato atteggiamento, sono dovute le maggiori conquiste della nostra società in ogni campo. Ma questa libertà spirituale non ha resistito alla crisi che ha fatto sorgere gli stati totalitari. Nuovi dogmi da accettare per fede, o da accettare ipocritamente, si stanno accampando da padroni in tutte le scienze.
Quantunque nessuno sappia che cosa sia una razza, e le più elementari nozioni storiche ne facciano risultare l'assurdità, si esige dai fisiologi di credere, dimostrare e convincere che si appartiene ad una razza eletta, solo perché l'imperialismo ha bisogno di questo mito per esaltare nelle masse l'odio e l'orgoglio. I più evidenti concetti della scienza economica debbono essere considerati anatemi per presentare la politica autarchica, gli scambi bilanciati e gli altri ferri vecchi del mercantilismo, come straordinarie scoperte dei nostri tempi. A causa dell'interdipendenza economica di tutte le parti del mondo, spazio vitale per ogni popolo che voglia conservare il livello di vita corrispondente alla civiltà moderna è tutto il globo; ma si è creata la pseudo scienza della geopolitica, che vuol dimostrare la consistenza della teoria degli spazi vitali, per dar veste teorica alla volontà di sopraffazione dell'imperialismo.
La storia viene falsificata nei suoi dati essenziali, nell'interesse della classe governante. Le biblioteche e le librerie vengono purificate di tutte le opere non considerate ortodosse. Le tenebre dell'oscurantismo di nuovo minacciano di soffocare lo spirito umano. La stessa etica sociale della libertà e dell'eguaglianza è scalzata. Gli uomini non sono più considerati cittadini liberi, che si valgono dello stato per meglio raggiungere i loro fini collettivi. Sono servitori dello stato, che stabilisce quali debbano essere i loro fini, e come volontà dello stato viene senz'altro assunta la volontà di coloro che detengono il potere. Gli uomini non sono più soggetti di diritto, ma, gerarchicamente disposti, sono tenuti ad ubbidire senza discutere alle autorità superiori che culminano in un capo debitamente divinizzato. Il regime delle caste rinasce prepotente dalle sue stesse ceneri.
Questa reazionaria civiltà totalitaria, dopo aver trionfato in una serie di paesi, ha infine trovato nella Germania nazista la potenza che si è ritenuta capace di trarne le ultime conseguenze. Dopo una meticolosa preparazione, approfittando con audacia e senza scrupoli delle rivalità, degli egoismi, della stupidità altrui, trascinando al suo seguito altri stati vassalli europei — primo fra i quali l'Italia — alleandosi col Giappone, che persegue fini identici in Asia, essa si è lanciata nell'opera di sopraffazione. La sua vittoria significherebbe il definitivo consolidamento del totalitarismo nel mondo. Tutte le sue caratteristiche sarebbero esasperate al massimo, e le forze progressive sarebbero condannate per lungo tempo ad una semplice opposizione negativa.
La tradizionale arroganza ed intransigenza dei ceti militari tedeschi può già darci un'idea di quel che sarebbe il carattere del loro dominio, dopo una guerra vittoriosa. I tedeschi, vittoriosi, potrebbero anche permettersi una lustra di generosità verso gli altri popoli europei, rispettare formalmente i loro territori e le loro istituzioni politiche, per governare così soddisfacendo lo stupido sentimento patriottico che guarda ai colori dei pali di confine ed alla nazionalità degli uomini politici che si presentano alla ribalta, invece che al rapporto delle forze ed al contenuto effettivo degli organismi dello stato. Comunque camuffata, la realtà sarebbe sempre la stessa: una rinnovata divisione dell'umanità in Spartiati ed Iloti.
Anche una soluzione di compromesso tra le parti in lotta, significherebbe un ulteriore passo innanzi del totalitarismo, poiché tutti i paesi che fossero sfuggiti alla stretta della Germania, sarebbero costretti ad adottare le sue stesse forme di organizzazione politica, per prepararsi adeguatamente alla ripresa della guerra.
Ma la Germania hitleriana, se ha potuto abbattere ad uno ad uno gli stati minori, con la sua azione ha costretto forze sempre più potenti a scendere in lizza. La coraggiosa combattività della Gran Bretagna, anche nel momento più critico in cui era rimasta sola a tener testa al nemico, ha fatto sì che i tedeschi sieno andati a cozzare contro la strenua resistenza dell'esercito sovietico e ha dato tempo all'America di avviare la mobilitazione delle sue sterminate risorse produttive. E questa lotta contro l'imperialismo tedesco si è strettamente connessa con quella che il popolo cinese va conducendo contro l'imperialismo giapponese.
Immense masse di uomini e di ricchezze sono già schierate contro le potenze totalitarie; le forze di queste potenze hanno raggiunto il loro culmine, e non possono ormai che consumarsi progressivamente. Quelle avverse hanno invece già superato il momento della massima depressione, e sono in ascesa.
La guerra degli alleati risveglia ogni giorno di più la volontà di liberazione, anche nei paesi che avevano soggiaciuto alla violenza ed erano stati smarriti per il colpo ricevuto; e persino risveglia tale volontà negli stessi popoli delle potenze dell'Asse, i quali si accorgono di essere trascinati in una situazione disperata, solo per soddisfare la brama di dominio dei loro padroni.
Il lento processo, grazie al quale enormi masse di uomini si lasciavano modellare passivamente dal nuovo regime, vi si adeguavano e contribuivano così a consolidarlo, è arrestato; si è invece iniziato il processo contrario. In questa immensa ondata che lentamente si solleva, si ritrovano tutte le forze progressive, le parti più illuminate delle classi lavoratrici che non si sono lasciate distogliere dal terrore e dalle lusinghe nella loro aspirazione ad una superiore forma di vita; gli elementi più consapevoli dei ceti intellettuali, offesi dalla degradazione cui è sottoposta la intelligenza; imprenditori che, sentendosi capaci di nuove iniziative, vorrebbero liberarsi dalle bardature burocratiche e dalle autarchie nazionali, che impacciano ogni loro movimento; tutti coloro infine che, per un senso innato di dignità, non sanno piegar la spina dorsale nell'umiliazione della servitù.
A tutte queste forze è oggi affidata la salvezza della nostra civiltà.
II. — COMPITI DEL DOPO GUERRA – L'UNITÀ EUROPEA.
La sconfitta della Germania non porterebbe però automaticamente al riordinamento dell'Europa secondo il nostro ideale di civiltà.
Nel breve intenso periodo di crisi generale (in cui gli stati giaceranno fracassati al suolo, in cui le masse popolari attenderanno ansiose le parole nuove e saranno materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme nuove, capaci di accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti), i ceti che più erano privilegiati nei vecchi sistemi nazionali, cercheranno subdolamente o con la violenza di smorzare l'ondata dei sentimenti e delle passioni internazionaliste, e si daranno ostentatamente a ricostituire i vecchi organismi statali. Ed è probabile che i dirigenti inglesi, magari d'accordo con quelli americani, tentino di spingere le cose in questo senso, per riprendere la politica dell'equilibrio dei poteri, nell'apparente immediato interesse dei loro imperi.
Le forze conservatrici, cioè: i dirigenti delle istituzioni fondamentali degli stati nazionali; i quadri superiori delle forze armate, culminanti, là dove ora esistono, nelle monarchie; quei gruppi del capitalismo monopolista che hanno legato le sorti dei loro profitti a quelle degli stati; i grandi proprietari fondiari e le alte gerarchie ecclesiastiche che solo da una stabile società conservatrice possono vedere assicurate le loro entrate parassitarie; ed al loro seguito tutto l'innumerevole stuolo di coloro che da essi dipendono o che anche sono solo abbagliati dalla loro tradizionale potenza; tutte queste forze reazionarie già fin da oggi sentono che l'edificio scricchiola, e cercano di salvarsi. Il crollo le priverebbe di colpo di tutte le garanzie che hanno avuto finora, e le esporrebbe all'assalto delle forze progressiste.
La situazione rivoluzionaria: vecchie e nuove correnti.
La caduta dei regimi totalitari significherà sentimentalmente per interi popoli l'avvento della «libertà»; sarà scomparso ogni freno, ed automaticamente regneranno amplissime libertà di parola e di associazione. Sarà il trionfo delle tendenze democratiche. Esse hanno innumerevoli sfumature, che vanno da un liberalismo molto conservatore fino al socialismo e all'anarchia. Credono nella «generazione spontanea» degli avvenimenti e delle istituzioni, nella bontà assoluta degli impulsi che vengono dal basso. Non vogliono forzare la mano alla «storia», «al popolo», al «proletariato» e come altro chiamano il loro Dio. Auspicano la fine delle dittature, immaginandola come la restituzione al popolo degli imprescrittibili diritti di autodeterminazione. Il coronamento dei loro sogni è un'assemblea costituente, eletta col più esteso suffragio e col più scrupoloso rispetto del diritto degli elettori, la quale decida che costituzione debba darsi. Se il popolo è immaturo, se ne darà una cattiva; ma correggerla si potrà solo mediante una costante opera di convinzione.
I democratici non rifuggono per principio dalla violenza; ma la vogliono adoperare solo quando la maggioranza sia convinta della sua indispensabilità, cioè propriamente quando non è più altro che un pressoché superfluo puntino da mettere sull’«i», sono perciò dirigenti adatti solo nelle epoche di ordinaria amministrazione, in cui un popolo è nel suo complesso convinto della bontà delle istituzioni fondamentali, che debbono essere solo ritoccate in aspetti relativamente secondari. Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente. La pietosa impotenza dei democratici nella rivoluzione russa, tedesca, spagnola, sono tre dei più recenti esempi. In tali situazioni, caduto il vecchio apparato statale, colle sue leggi e la sua amministrazione, pullulano immediatamente, con sembianze di vecchia legalità, o sprezzandola, una quantità di assemblee e rappresentanze popolari in cui convergono e si agitano tutte le forze sociali progressiste. Il popolo ha sì alcuni fondamentali bisogni da soddisfare, ma non sa con precisione cosa volere e cosa fare. Mille campane suonano alle sue orecchie. Con i suoi milioni di teste non riesce ad orientarsi, e si disgrega in una quantità di tendenze in lotta fra loro.
Nel momento in cui occorre la massima decisione e audacia, i democratici si sentono smarriti, non avendo dietro di sé uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni. Pensano che loro dovere sia di formare quel consenso, e si presentano come predicatori esortanti, laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare. Perdono le occasioni favorevoli al consolidamento del nuovo regime, cercando di far funzionare subito organi che presuppongono una lunga preparazione, e sono adatti ai periodi di relativa tranquillità; dànno ai loro avversari armi di cui quelli poi si valgono per rovesciarli; rappresentano insomma, nelle loro mille tendenze, non già la volontà di rinnovamento, ma le confuse velleità regnanti in tutte le menti, che, paralizzandosi a vicenda, preparano il terreno propizio allo sviluppo della reazione. La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria.
Man mano che i democratici logorassero nelle loro logomachie la loro prima popolarità di assertori della libertà, mancando ogni seria rivoluzione politica e sociale, si andrebbero immancabilmente ricostituendo le istituzioni politiche pre-totalitarie, e la lotta tornerebbe a svilupparsi secondo i vecchi schemi della contrapposizione delle classi.
Il principio secondo il quale la lotta di classe è il termine cui van ridotti tutti i problemi politici, ha costituito la direttiva fondamentale specialmente degli operai delle fabbriche, ed ha giovato a dare consistenza alla loro politica, finché non erano in questione le istituzioni fondamentali; ma si converte in uno strumento di isolamento del proletariato, quando si imponga la necessità di trasformare l'intera organizzazione della società. Gli operai, educati classisticamente, non sanno allora vedere che le loro particolari rivendicazioni di classe, o addirittura di categoria, senza curarsi del come connetterle con gli interessi degli altri ceti; oppure aspirano alla unilaterale dittatura della loro classe, per realizzare l'utopistica collettivizzazione di tutti gli strumenti materiali di produzione, indicata da una propaganda secolare come il rimedio sovrano di tutti i loro mali. Questa politica non riesce a far presa su nessun altro strato, fuorché sugli operai, i quali così privano le altre forze progressive del loro sostegno, o le lasciano cadere in balìa della reazione che abilmente le organizza per spezzare le reni allo stesso movimento proletario.
Fra le varie tendenze proletarie, seguaci della politica classista e dell'ideale collettivista, i comunisti hanno riconosciuta la difficoltà di ottenere un seguito di forze sufficienti per vincere, e per ciò si sono — a differenza degli altri partiti popolari — trasformati in un movimento rigidamente disciplinato, che sfrutta il mito russo per organizzare gli operai, ma non prende legge da essi e li utilizza nelle più disparate manovre.
Questo atteggiamento rende i comunisti, nelle crisi rivoluzionarie, più efficienti dei democratici; ma, tenendo essi distinte quanto più possono le classi operaie dalle altre forze rivoluzionarie — col predicare che la loro «vera» rivoluzione è ancora da venire — costituiscono, nei momenti decisivi, un elemento settario che indebolisce il tutto. Inoltre, la loro assoluta dipendenza dallo stato russo, che li ha ripetutamente adoperati per il perseguimento della sua politica nazionale, impedisce loro di svolgere alcuna politica con un minimo di continuità. Hanno sempre bisogno di nascondersi dietro un Karoly, un Blum, un Negrin, per andare poi facilmente in rovina insieme con i fantocci democratici adoperati; poiché il potere si consegue e mantiene non semplicemente con la furberia, ma con la capacità di rispondere in modo organico e vitale alla necessità della società moderna.
Se la lotta restasse domani ristretta nel tradizionale campo nazionale, sarebbe molto difficile sfuggire alle vecchie aporie. Gli stati nazionali hanno infatti già così profondamente pianificato le rispettive economie, che la questione centrale diverrebbe ben presto quella di sapere quale gruppo di interessi economici, cioè quale classe dovrebbe detenere le leve di comando del piano. Il fronte delle forze progressiste sarebbe facilmente frantumato nella rissa fra classi e categorie economiche. Con la maggiore probabilità i reazionari sarebbero coloro che ne trarrebbero profitto.
Un vero movimento rivoluzionario dovrà sorgere da coloro che han saputo criticare le vecchie impostazioni politiche; dovrà saper collaborare con le forze democratiche, con quelle comuniste, e in genere con quanti cooperino alla disgregazione del totalitarismo; ma senza lasciarsi irretire dalla prassi politica di nessuna di esse.
Le forze reazionarie hanno uomini e quadri abili ed educati al comando, che si batteranno accanitamente per conservare la loro supremazia. Nel grave momento sapranno presentarsi ben camuffati, si proclameranno amanti della libertà, della pace, del benessere generale, delle classi più povere. Già nel passato abbiamo visto come si siano insinuate dietro i movimenti popolari, e li abbiano paralizzati, deviati, convertiti nel preciso contrario. Senza dubbio saranno la forza più pericolosa con cui si dovranno fare i conti.
Il punto sul quale esse cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello stato nazionale. Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso, più offeso dai recenti movimenti, più facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento patriottico. In tal modo possono anche sperare di più facilmente confondere le idee degli avversari, dato che per le masse popolari l'unica esperienza politica finora acquisita è quella svolgentesi entro l'ambito nazionale, ed è perciò abbastanza facile convogliare sia esse che i loro capi più miopi sul terreno della ricostruzione degli stati abbattuti dalla bufera.
Se questo scopo venisse raggiunto, la reazione avrebbe vinto. Potrebbero pure questi stati essere in apparenza largamente democratici e socialisti; il ritorno del potere nelle mani dei reazionari sarebbe solo questione di tempo. Risorgerebbero le gelosie nazionali, e ciascuno stato di nuovo riporrebbe la soddisfazione delle proprie esigenze solo nella forza delle armi. Compito precipuo tornerebbe ad essere a più o meno breve scadenza quello di convertire i popoli in eserciti. I generali tornerebbero a comandare, i monopolisti a profittare delle autarchie, i corpi burocratici a gonfiarsi, i preti a tener docili le masse. Tutte le conquiste del primo momento si raggrinzirebbero in un nulla, di fronte alla necessità di prepararsi nuovamente alla guerra.
Il problema che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani. Il crollo della maggior parte degli stati del continente sotto il rullo compressore tedesco ha già accomunato la sorte dei popoli europei, che o tutti insieme soggiaceranno al dominio hitleriano, o tutti insieme entreranno, con la caduta di questo, in una crisi rivoluzionaria in cui non si troveranno irrigiditi e distinti in solide strutture statali. Gli spiriti sono già ora molto meglio disposti che in passato ad una riorganizzazione federale dell'Europa. La dura esperienza degli ultimi decenni ha aperto gli occhi anche a chi non voleva vedere, ed ha fatto maturare molte circostanze favorevoli al nostro ideale.
Tutti gli uomini ragionevoli riconoscono ormai che non si può mantenere un equilibrio di stati europei indipendenti, con la convivenza della Germania militarista a parità di condizioni con gli altri paesi, né si può spezzettare la Germania e tenerle il piede sul collo una volta che sia vinta. Alla prova, è apparso evidente che nessun paese in Europa può restarsene da parte mentre gli altri si battono, a niente valendo le dichiarazioni di neutralità e di patti di non aggressione. È ormai dimostrata l'inutilità, anzi la dannosità di organismi sul tipo della Società delle Nazioni, che pretendeva di garantire un diritto internazionale senza una forza militare capace di imporre le sue decisioni, e rispettando la sovranità assoluta degli stati partecipanti. Assurdo è risultato il principio del non intervento, secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di darsi il governo dispotico che meglio crede, quasi che la costituzione interna di ogni singolo stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri paesi europei. Insolubili sono diventati i molteplici problemi che avvelenano la vita internazionale del continente — tracciato dei confini nelle zone di popolazione mista, difesa delle minoranze allogene, sbocco al mare dei paesi situati nell'interno, questione balcanica, questione irlandese, ecc. — che troverebbero nella Federazione Europea la più semplice soluzione — come l'hanno trovata in passato i corrispondenti problemi degli staterelli entrati a far parte della più vasta unità nazionale avendo perso la loro acredine, col trasformarsi in problemi di rapporti fra le diverse provincie.
D'altra parte, la fine del senso di sicurezza dato dalla inattaccabilità della Gran Bretagna, che consigliava agli inglesi la «splendid isolation», la dissoluzione dell'esercito e della stessa repubblica francese al primo serio urto delle forze tedesche (risultato che è da sperare abbia di molto smorzata la convinzione sciovinista dell'assoluta superiorità gallica) e specialmente la coscienza della gravità del pericolo corso di generale asservimento, sono tutte circostanze che favoriranno la costituzione di un regime federale, che ponga fine all'attuale anarchia. E il fatto che l'Inghilterra abbia ormai accettato il principio dell'indipendenza indiana, e la Francia abbia potenzialmente perduto col riconoscimento della sconfitta tutto il suo impero, rendono più agevole trovare anche una base di accordo per una sistemazione europea nei possedimenti coloniali.
A tutto ciò va aggiunta infine la scomparsa di alcune delle principali dinastie, e la fragilità delle basi che sostengono quelle superstiti. Va tenuto conto infatti che le dinastie, considerando i diversi paesi come proprio tradizionale appannaggio, rappresentavano, con i poderosi interessi di cui eran l'appoggio, un serio ostacolo alla organizzazione razionale degli Stati Uniti d'Europa, i quali non possono poggiare che sulla costituzione repubblicana di tutti i paesi federati. E quando, superando l'orizzonte del vecchio continente, si abbraccino in una visione di insieme tutti i popoli che costituiscono l'umanità, bisogna pur riconoscere che la Federazione Europea è l'unica concepibile garanzia che i rapporti con i popoli asiatici e americani si possano svolgere su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l'unità politica dell'intero globo.
La linea di divisione fra partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale — e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie lasciando solidificare la lava incandescente delle passioni popolari nel vecchio stampo, e risorgere le vecchie assurdità — e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopreranno in primissima linea come strumento per realizzare l'unità internazionale.
Con la propaganda e con l'azione, cercando di stabilire in tutti i modi accordi e legami fra i singoli movimenti che nei vari paesi si vanno certamente formando, occorre sin d'ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per far nascere il nuovo organismo che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa; per costituire un saldo stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali; spezzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari; abbia gli organi e i mezzi sufficienti per far eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli stati stessi l'autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo di una vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli.
Se ci sarà nei principali paesi europei un numero sufficiente di uomini che comprenderanno ciò, la vittoria sarà
in breve nelle loro mani, poiché la situazione e gli animi saranno favorevoli alla loro opera. Essi avranno di fronte partiti e tendenze già tutti squalificati dalla disastrosa esperienza dell'ultimo ventennio. Poiché sarà l'ora di opere nuove, sarà anche l'ora di uomini nuovi: del MOVIMENTO PER L'EUROPA LIBERA ED UNITA.
III. — COMPITI DEL DOPO GUERRA – LA RIFORMA DELLA SOCIETÀ.
Un'Europa libera e unita è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l'era totalitaria rappresenta un arresto. La fine di questa era farà riprendere immediatamente in pieno il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Tutte le vecchie istituzioni conservatrici che ne impedivano l'attuazione saranno crollate o crollanti; e questa loro crisi dovrà essere sfruttata con coraggio e decisione.
La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l'emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita. La bussola di orientamento per i provvedimenti da prendere in tale direzione non può essere però il principio puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita e tollerata solo in linea provvisoria, quando non se ne possa proprio fare a meno. La statizzazione generale dell'economia è stata la prima forma utopistica in cui le classi operaie si sono rappresentate la loro liberazione dal giogo capitalista; ma, una volta realizzata in pieno, non porta allo scopo sognato, bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell'economia.
Il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma — come avviene per le forze naturali — essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne sieno vittime. Le gigantesche forze di progresso che scaturiscono dall'interesse individuale, non vanno spente nella morta gora della pratica routinière per trovarsi poi di fronte all'insolubile problema di resuscitare lo spirito d'iniziativa con le differenziazioni nei salari, e con gli altri provvedimenti del genere; quelle forze vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore opportunità di sviluppo e di impiego, e contemporaneamente vanno consolidati e perfezionati gli argini che le convogliano verso gli obbiettivi di maggiore vantaggio per tutta la collettività.
La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio. Questa direttiva si inserisce naturalmente nel processo di formazione di una vita economica europea liberata dagli incubi del militarismo o del burocratismo nazionale. La soluzione razionale deve prendere il posto di quella irrazionale, anche nella coscienza dei lavoratori. Volendo indicare in modo più particolareggiato il contenuto di questa direttiva, ed avvertendo che la convenienza e le modalità di ogni punto programmatico dovranno essere sempre giudicate in rapporto al presupposto ormai indispensabile dell'unità europea, mettiamo in rilievo i seguenti punti:
a) Non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un'attività necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori; ad esempio le industrie elettriche, le imprese che si vogliono mantenere in vita per ragioni di interesse collettivo ma che, per reggersi, hanno bisogno di dazi protettivi, sussidi, ordinazioni di favore ecc. (l'esempio più notevole di questo tipo d'industria sono finora in Italia le siderurgiche); e le imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai occupati, o per l'importanza del settore che dominano, possono ricattare gli organi dello stato, imponendo la politica per loro più vantaggiosa (es.: industrie minerarie, grandi istituti bancari, grandi armamenti). È questo il campo in cui si dovrà procedere senz'altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti.
b) Le caratteristiche che hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il diritto di successione, hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà distribuire durante una crisi rivoluzionaria in senso egualitario, per eliminare i ceti parassitari e per dare ai lavoratori gli strumenti di produzione di cui abbisognano, onde migliorare le condizioni economiche e far loro raggiungere una maggiore indipendenza di vita. Pensiamo cioè ad una riforma agraria che, passando la terra a chi la coltiva, aumenti enormemente il numero dei proprietari, e ad una riforma industriale che estenda la proprietà dei lavoratori nei settori non statizzati, con le gestioni cooperative, l'azionariato operaio ecc.
c) I giovani vanno assistiti con le provvidenze necessarie per ridurre al minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita. In particolare la scuola pubblica dovrà dare le possibilità effettive di proseguire gli studi fino ai gradi superiori ai più idonei, invece che ai più ricchi; e dovrà preparare in ogni branca di studi, per l'avviamento ai diversi mestieri e alla diverse attività liberali e scientifiche, un numero di individui corrispondente alla domanda del mercato, in modo che le rimunerazioni medie risultino poi press'a poco eguali per tutte le categorie professionali, qualunque possano essere le divergenze fra le rimunerazioni nell'interno di ciascuna categoria, a seconda delle diverse capacità individuali.
d) La potenzialità quasi senza limiti della produzione in massa dei generi di prima necessità, con la tecnica moderna, permette ormai di assicurare a tutti, con un costo sociale relativamente piccolo, il vitto, l'alloggio e il vestiario, col minimo di conforto necessario per conservare il senso della dignità umana. La solidarietà umana verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica, non dovrà, per ciò, manifestarsi con le forme caritative sempre avvilenti e produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio. Così nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro iugulatori.
e) La liberazione delle classi lavoratrici può aver luogo solo realizzando le condizioni accennate nei punti precedenti: non lasciandole ricadere in balìa della politica economica dei sindacati monopolistici, che trasportano semplicemente nel campo operaio i metodi sopraffattori caratteristici anzitutto del grande capitale. I lavoratori debbono tornare ad essere liberi di scegliere i fiduciari per trattare collettivamente le condizioni cui intendono prestare la loro opera, e lo stato dovrà dare i mezzi giuridici per garantire l'osservanza dei patti conclusivi; ma tutte le tendenze monopolistiche potranno essere efficacemente combattute, una volta che sieno realizzate quelle trasformazioni sociali.
Questi sono i cambiamenti necessari per creare intorno al nuovo ordine un larghissimo strato di cittadini interessati al suo mantenimento, e per dare alla vita politica una consolidata impronta di libertà, impregnata di un forte senso di solidarietà sociale. Su queste basi, le libertà politiche potranno veramente avere un contenuto concreto, e non solo formale, per tutti, in quanto la massa dei cittadini avrà una indipendenza ed una conoscenza sufficiente per esercitare un continuo ed efficace controllo sulla classe governante.
Sugli istituti costituzionali sarebbe superfluo soffermarsi, poiché, non potendosi prevedere le condizioni in cui dovranno sorgere ed operare, non faremmo che ripetere quel che tutti già sanno sulla necessità di organi rappresentativi, sulla formazione delle leggi, sull'indipendenza della magistratura che prenderà il posto dell'attuale per l'applicazione imparziale delle leggi emanate, sulla libertà di stampa e di associazione per illuminare l'opinione pubblica e dare a tutti i cittadini la possibilità di partecipare effettivamente alla vita dello stato. Su due sole questioni è necessario precisare meglio le idee, per la loro particolare importanza in questo momento nel nostro paese: sui rapporti dello stato con la chiesa e sul carattere della rappresentanza politica:
a) il concordato con cui in Italia il Vaticano ha concluso l'alleanza col fascismo andrà senz'altro abolito per affermare il carattere puramente laico dello stato, e per fissare in modo inequivocabile la supremazia dello stato sulla vita civile. Tutte le credenze religiose dovranno essere egualmente rispettate, ma lo stato non dovrà più avere un bilancio dei culti.
b) La baracca di cartapesta che il fascismo ha costituito con l'ordinamento corporativo cadrà in frantumi insieme alle altre parti dello stato totalitario. C'è chi ritiene che da questi rottami si potrà domani trarre il materiale per il nuovo ordine costituzionale. Noi non lo crediamo. Negli stati totalitari, le camere corporative sono la beffa che corona il controllo poliziesco sui lavoratori. Se anche però le camere corporative fossero la sincera espressione delle diverse categorie dei produttori, gli organi di rappresentanza delle diverse categorie professionali non potrebbero mai essere qualificati per trattare questioni di politica generale, e nelle questioni più propriamente economiche diverrebbero organi di sopraffazione delle categorie sindacalmente più potenti. Ai sindacati spetteranno ampie funzioni di collaborazione con gli organi statali incaricati di risolvere i problemi che più direttamente li riguardano, ma è senz'altro da escludere che ad essi vada affidata alcuna funzione legislativa, poiché risulterebbe un'anarchia feudale nella vita economica, concludentesi in un rinnovato dispotismo politico. Molti che si sono lasciati prendere ingenuamente dal mito del corporativismo, potranno e dovranno essere attratti all'opera di rinnovamento; ma occorrerà che si rendano conto di quanto assurda sia la soluzione da loro confusamente sognata. Il corporativismo non può avere vita concreta che nella forma assunta dagli stati totalitari, per irreggimentare i lavoratori sotto funzionari che ne controllino ogni mossa nell'interesse della classe governante.
Il partito rivoluzionario non può essere dilettantescamente improvvisato nel momento decisivo, ma deve sin da ora cominciare a formarsi almeno nel suo atteggiamento politico centrale, nei suoi quadri generali e nelle prime direttive d'azione. Esso non deve rappresentare una massa eterogenea di tendenze, riunite solo negativamente e transitoriamente, cioè per il loro passato antifascista e nella semplice attesa della caduta del regime totalitario, pronte a disperdersi ciascuna per la sua strada, una volta raggiunta quella meta. Il partito rivoluzionario sa invece che solo allora comincerà veramente la sua opera; e deve perciò essere costituito da uomini che si trovino d'accordo sui principali problemi del futuro.
Deve penetrare con la sua propaganda metodica ovunque vi sieno degli oppressi dell'attuale regime, e, prendendo come punto di partenza il problema volta a volta sentito come più doloroso dalle singole persone e classi, mostrare come esso si connette con altri problemi, e quale possa esserne la vera soluzione. Ma dalla sfera via via crescente dei suoi simpatizzanti deve attingere e reclutare nell'organizzazione del movimento solo coloro che hanno fatto della rivoluzione europea lo scopo principale della loro vita; che disciplinatamente realizzino giorno per giorno il necessario lavoro, provvedano oculatamente alla sicurezza continua ed efficace di esso, anche nelle situazioni di più dura illegalità, e costituiscano così la solida rete che dà consistenza alla più labile sfera dei simpatizzanti.
Pur non trascurando nessuna occasione e nessun campo per seminare la sua parola, esso deve rivolgere la sua operosità in primissimo luogo a quegli ambienti che sono più importanti come centro di diffusione di idee e come centro di reclutamento di uomini combattivi; anzitutto verso i due gruppi sociali più sensibili nella situazione odierna, e decisivi in quella di domani; vale a dire la classe operaia e i ceti intellettuali. La prima è quella che meno si è sottomessa alla ferula totalitaria, e che sarà la più pronta a riorganizzare le proprie file. Gli intellettuali, particolarmente i più giovani, sono quelli che si sentono spiritualmente più soffocare e disgustare dal regnante dispotismo. Man mano altri ceti saranno inevitabilmente attratti nel movimento generale.
Qualsiasi movimento che fallisca nel compito di alleanza di queste forze, è condannato alla sterilità; poiché, se movimento di soli intellettuali, sarà privo della forza di massa necessaria per travolgere le resistenze reazionarie, sarà diffidente e diffidato rispetto alla classe operaia; ed anche se animato da sentimenti democratici, proclive a scivolare, di fronte alle difficoltà, sul terreno della mobilitazione di tutte le altre classi contro gli operai, cioè verso una restaurazione fascista. Se poggerà solo sul proletariato, sarà privo di quella chiarezza di pensiero che non può venire che dagli intellettuali, e che è necessaria per ben distinguere i nuovi compiti e le nuove vie: rimarrà prigioniero del vecchio classismo, vedrà nemici da per tutto, e sdrucciolerà sulla dottrinaria soluzione comunista.
Durante la crisi rivoluzionaria, spetta a questo movimento organizzare e dirigere le forze progressiste, utilizzando tutti quegli organi popolari che si formano spontaneamente come crogioli ardenti in cui vanno a mischiarsi le masse rivoluzionarie, non per emettere plebisciti, ma in attesa di essere guidate. Esso attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto non da una preventiva consacrazione da parte dell'ancora inesistente volontà popolare, ma dalla coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna. Dà in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle informi masse. Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato, e intorno ad esso la nuova vera democrazia.
Non è da temere che un tale regime rivoluzionario debba necessariamente sboccare in un rinnovato dispotismo. Vi sbocca se è venuto modellando un tipo di società servile. Ma se il partito rivoluzionario andrà creando con polso fermo, fin dai primissimi passi, le condizioni per una vita libera, in cui tutti i cittadini possano partecipare veramente alla vita dello stato, la sua evoluzione sarà, anche se attraverso eventuali secondarie crisi politiche, nel senso di una progressiva comprensione ed accettazione da parte di tutti del nuovo ordine, e perciò nel senso di una crescente possibilità di funzionamento, di istituzioni politiche libere.
Oggi è il momento in cui bisogna saper gettare via vecchi fardelli divenuti ingombranti, tenersi pronti al nuovo che sopraggiunge, così diverso da tutto quello che si era immaginato, scartare gli inetti fra i vecchi e suscitare nuove energie fra i giovani. Oggi si cercano e si incontrano, cominciando a tessere la trama del futuro, coloro che hanno scorto i motivi dell'attuale crisi della civiltà europea, e che perciò raccolgono l'eredità di tutti i movimenti di elevazione dell'umanità, naufragati per incomprensioni del fine da raggiungere o dei mezzi come raggiungerlo.
La via da percorrere non è facile, né sicura. Ma deve essere percorsa, e lo sarà!
GLI STATI UNITI D’EUROPA
E LE VARIE TENDENZE POLITICHE
Wir gehören zum Geschlecht,
das aus dem Dunkeln ins Helle
strebt.
Goethe.
Quale sia il male profondo che mina la società europea, è evidentissimo ormai per tutti: è la guerra totale moderna, preparata e condotta mediante l’impiego di tutte le energie sociali esistenti nei singoli paesi. Quando divampa, distrugge uomini e ricchezze; quando cova sotto le ceneri, opprime come un incubo logorante qualsiasi altra attività. Nessuno oggi può consolidarla con la spensieratezza d’un tempo. «La guerra fresca e gioiosa» cioè l’avventura inebriante, breve, relativamente poco costosa, poteva affascinare una trentina d’anni fa spiriti leggeri che non avevano riflettuto sulle enormi capacità distruttive della tecnica moderna e sull’imbarbarimento degli animi. Gli uomini di oggi, che in gran parte vedono già per la seconda volta il flagello, conoscono tutta l’insulsaggine di quel mito, e si rendono conto che il pericolo permanente di conflitti armati fra popoli civili deve essere estirpato radicalmente, se non si vuole che distrugga tutto ciò a cui si tiene di più. Può essere utile indicare brevemente come sieno oggi in generale orientate le idee degli uomini intorno a questo problema, e che cosa ci sia ragionevolmente da attendersi da questi orientamenti, qualora possano realizzarsi in effettive istituzioni ed opere. Possiamo raggrupparli, trascurando sfumature secondarie, intorno a tre indirizzi tipici.
1°) Il razzismo, che vede una via di uscita nella instaurazione della signoria della razza superiore alle altre;
2°) La democrazia, che vede nei regimi tirannici la causa delle guerre e conta sulla pace che deve accompagnare le restaurazioni democratiche;
3°) Il comunismo, che considera il capitalismo come il colpevole dei conflitti e ne esige perciò l’abolizione come condizione necessaria della pace tra i popoli.
Dopo aver esaminato questi tre indirizzi cercheremo di indicare la via lungo la quale converrà ricercare la soluzione più corrispondente alle esigenze della civiltà europea.
I. — IL RAZZISMO E L’UNITÀ EUROPEA.
1°) Per l’ingenuo europeo che, senza pensarci troppo, aveva creduto che la civiltà del secolo XIX fosse la forma, per così dire, naturale e spontanea in cui si esplica l’attività umana, l’apparire e il giganteggiare dell’atteggiamento razzista sembra presso a poco un cumulo di assurdità, di pazzie, di falsità. In realtà, il rispetto della reciproca libertà sulla base di un’eguaglianza giuridica è solo il risultato di un complesso processo storico, nel quale si sono venute incanalando quelle che sono veramente le tendenze immediate dell’animo umano, indirizzandole verso scopi diversi da quelli cui spontaneamente si volgerebbero. L’uomo civile è un prodotto complicato e fragile. I più grandiosi frutti della civiltà sono dovuti alla ferrea disciplina che questa impone al selvaggio animo umano. Ma quando gli uomini vengono a trovarsi di fronte a problemi la cui soluzione è di importanza vitale e di cui tuttavia non riescono a venire a capo per le resistenze che incontrano e per la mancanza di strumenti atti a risolverli in modi civili, quella disciplina si può spezzare e lasciar emergere le forze primordiali. Le quali tendono a risolvere le difficoltà colla violenta imposizione della loro volontà.
Se prevalgono, tendono ad organizzare tutta la società secondo il rapporto fra padrone e servo. Il padrone decide autocraticamente il da fare: il servo fa quello che ordina il padrone. Coloro che fanno resistenza vanno soggiogati, o, se non vogliono sottomettersi, distrutti. Chi sottomette afferma in tal modo la sua personalità, le sue esigenze. Chi si sottomette rinuncia con ciò alla propria autonomia, e preferisce conservare la propria vita facendola dipendere da un altro, anziché perderla. È questa la legge immanente al tipo di società basata sul diritto del più forte.
2°) Attraverso un secolare processo la nostra civiltà aveva abolito legalmente il rapporto fra padrone e servo, e andava cercando le vie per abolirlo anche di fatto. Invece, in forme inaspettate, è di nuovo apparso prepotentemente dalle profondità. In altra occasione si potranno esaminare le vicende attraverso le quali questo atteggiamento è riemerso in questo o quel paese, affermandosi allo stato più puro in Germania. Qui ci basti accennare che non è stato causato, ma solo occasionato da motivi economici, accanto a parecchi altri.
Le grandi crisi del dopo guerra sono state fra le più grosse difficoltà contro cui si è infranta la disciplina sociale moderna, aprendo un varco alle tendenze atavistiche latenti nell’animo umano. Una volta scatenatosi ed affermatosi, questo atteggiamento di conquista diventa centro di impulsi e di azioni, che risolve secondo la sua intima natura i problemi di fronte ai quali si trova. Nella società moderna il rapporto tra signori e servi è realizzato nel modo più coerente dal razzismo tedesco. Il mito razzista, per inconsistente che possa essere alla luce della conoscenza scientifica, rappresenta il criterio ideale con cui vengono fissate le gerarchie dei valori, e viene elaborata la divisione dell’umanità in caste. Tutte le energie politiche, sociali, economiche e culturali che la società era venuta sviluppando, sono trasformate in strumenti di dominio dei signori. Il paese è organizzato in una specie di collettivismo razzista di tipo spartano: cioè una organizzazione militare, atta a tener ferme le distinzioni fra dominatori e dominati, ad impedire scissioni fra i primi, a sfruttare i servi di grado inferiore a vantaggio dei signori e dei servi di grado superiore, cioè del popolo cosiddetto dominatore. Questo è in realtà esso stesso un docile strumento in mano alle ristrette caste veramente dominanti, ed è adoperato per sottomettere altri popoli. Al disotto dei tedeschi stanno già, come servi di ordine inferiore, i cechi, i polacchi, gli ebrei, ecc. (1). Il dominio e il conseguente diritto di sfruttamento giungono dove può giungere la forza. Nessuno scrupolo verso altri ha ragione di essere, perché gli altri sono per definizione strumenti od ostacoli, servi o nemici.
3°) L’assurda anarchia dell’organizzazione internazionale europea è il termine più propizio che sia possibile immaginare per l’esplicazione piena del razzismo. Esso è portato senz’altro a tentare di organizzare il continente e le sue appendici coloniali come campo di sfruttamento da parte della razza dominante. Le contraddizioni sorgenti dall’esistenza degli stati nazionali non esisterebbero in tal caso più, ma la loro soluzione sarebbe per tutta un’epoca quella dello sfruttamento e della colonizzazione militare di tutta l’Europa a vantaggio di una sola comunità nazionale. Assolutamente privo d’importanza è lo stare a speculare sia intorno alle forme giuridiche che questo impero potrebbe assumere, sia intorno a quelle economiche. Lo sfruttamento può prendere aspetti collettivistici di imposizione di tributi alle comunità sottomesse, o aspetti capitalistici di provvedimenti restrittivi che facciano funzionare il mercato nel senso voluto.
Quali che possano essere gli ulteriori sviluppi di questo regime, certo è che la sua vittoria significherebbe l’instaurazione di un tipo di civiltà di caste, totalmente diverse da quello lungo il quale l’Europa era andata sinora sviluppandosi. L’orientamento nazista potrebbe realizzarsi in modo intelligente e stupido, ma è da notare che i fini che si propone non sono irrealizzabili per contraddizioni interne, e i mezzi che adopera possono essere anch’essi coerenti. Non c’è perciò da attendersi ragionevolmente che sia destinato a sfasciarsi per intima inconsistenza. Il significato profondo della guerra odierna, al di là dei particolari problemi politici ed economici che essa implica, non è perciò quello di una guerra di imperialismi economici né di una guerra di nazioni più o meno prepotenti. È quello di una guerra di civiltà, fatta per decidere se la nostra vita debba o no soggiacere a quel ricorso atavistico. Chiunque abbia un po’ di conoscenza di storia dei popoli primitivi, sa che questo è il loro naturale modo di comportarsi. L’esitazione ad applicare queste categorie agli avvenimenti odierni, proviene semplicemente dall’opinione, del tutto ingiustificata, che le forme di civiltà barbarica sieno connesse con uno stadio di conoscenze tecniche molto basse, e che sieno perciò oggi impossibili. In realtà sono solo connesse con atteggiamenti spirituali molto elementari, e possono star benissimo assieme agli aeroplani e alla radio.
II. — LA DEMOCRAZIA E L’UNITÀ EUROPEA.
1°) La più comune esperienza mostra che l’uomo, quando si trova implicato in una situazione che sconcerti le sue tradizionali abitudini e presenti aspetti nuovi, tende con estrema facilità a negare il nuovo problema, a ricondurlo al vecchio, a ricostituire gli antichi schemi di condotta, nei quali tutto si svolgeva in modo «ragionevole», cioè riposante. La volontà che sembra tesa verso la creazione, è invece quasi sempre rivolta verso la restaurazione del già noto.
Non si può trattare con disprezzo questo atteggiamento, poiché è il fondamento della continuità nella vita dei singoli e dei gruppi. Non si potrebbe far nulla di serio, se si pretendesse di ricominciare ogni volta tutto da capo. Normalmente ci si appropria di una esperienza nuova riconducendola a motivi ed abiti già noti. Ma è un orientamento che diventa del tutto assurdo, ed è alimentato non più dalla ragionevolezza, ma dalla nostalgia, quando tende a proseguir fini e ad applicar mezzi i quali, per la loro natura e per le circostanze in cui possono ormai essere realizzati, conducono inevitabilmente alla rovina di quel che si vorrebbe veder consolidato. Per misurare perciò il valore positivo o negativo di questo orientamento, occorre esaminare la coerenza dei suoi fini e dei suoi mezzi.
Il modo più caratteristico in cui questo atteggiamento oggi si presenta nella vita politica, è quello della restaurazione democratica nazionale, che vorrebbe veder ristabiliti i due principii fondamentali su cui poggiava e si era sviluppata la civiltà europea del secolo diciannovesimo, e che il corso degli avvenimenti ha fatto crollare: cioè il principio secondo cui ogni nazione ha il diritto di organizzarsi in uno stato sovrano assolutamente indipendente; e quello secondo cui l’uomo ha imparato ad essere più o meno rispettoso della personalità altrui nell’ambito delle leggi esistenti, ed esigere dagli altri lo stesso rispetto verso di sé, ed a svolgere così in modo libero e spontaneo la propria personalità, indisturbato per quanto concerne le sue esigenze individuali, o in volontaria collaborazione coi consenzienti per quanto concerne le esigenze collettive.
2°) Attribuiamo per un momento a questi restauratori il massimo di intelligenza e di fortuna nella loro eventuale opera. Poniamo che riescano dovunque a fondare nei vari stati istituzioni libere in cui sieno rispettati nel miglior modo possibile i sentimenti delle tradizionali nazionalità; sieno ridotte a un livello insignificante le influenze sinistre di gruppi particolari, in modo che la legge possa veramente imperare eguale per tutti; sieno eliminati tutti i protezionismi e tutte le limitazioni migratorie fra paese e paese; sieno sostanzialmente ridotte tutte le spese per gli armamenti; l’attività dello stato sia insomma rivolta non alla sopraffazione verso l’esterno, ma al perseguimento dei comuni interessi dei suoi cittadini.
In tale ipotesi sarebbe certamente possibile una ripresa, per tutta un’epoca storica, della civiltà democratica nazionale, purificata anzi dalle gravi tare che ebbe nel passato. Si noti però che, in tutta questa sistemazione, il punto più debole è quello costituito dall’organizzazione internazionale. Mentre nel campo nazionale il restauratore intelligente capisce che è necessario non affidarsi semplicemente alla buona volontà dei cittadini, ma provvede a stabilire un saldo corpo di leggi fornite di potere coercitivo onde raffrenare e indirizzare le singole attività, i rapporti tra i vari stati restano basati esclusivamente sulla buona volontà pacifica di ciascuno di essi, nel presupposto di una completa coincidenza dell’interesse dei singoli stati con l’interesse della collettività degli stati stessi.
Ma questo presupposto non è vero; è vero anzi il presupposto contrario. In assenza di proibizioni, è possibilissimo procurarsi posizioni che rappresentino un danno per altri ed un vantaggio per sé. Perché un tale abuso accada, non è necessario supporre una particolare perversa volontà di sopraffazione; basta che uno stato pensi che suo dovere sia, non già di provvedere al benessere di tutti gli uomini, ma a quello dei suoi cittadini.
Lo stato nazionale è costruito appunto a questo scopo; esso è organicamente inadatto a vedere gli interessi di tutti gli uomini. Mille e una occasione si presenterebbero ad ogni istante, nelle quali l’interesse di particolari gruppi geografici sarebbe meglio favorito danneggiando anziché rispettando l’interesse di tutti gli altri paesi. Nulla esisterebbe che potrebbe trattenere dall’imboccare questa strada. Ma una volta presa, diventerebbe pressoché impossibile trarsi fuori dall’ingranaggio che impone ad ogni stato di difendere gli interessi lesi dagli abusi altrui, ricorrendo infine alla forza per farli valere. Ricomincerebbe la militarizzazione progressiva dei singoli paesi, micidiale per qualsiasi sano regime di libertà; si ripeterebbe il ciclo già percorso due volte fra il 1870 e il 1914 e fra il 1918 e il 1938. La restaurazione democratica nazionale poggerebbe perciò, anche nella migliore delle ipotesi, su basi quanto mai precarie.
3°) Ma abbiamo in realtà reso troppo facile il compito ai restauratori, attribuendo loro una intelligenza ed una fortuna che non ci si può ragionevolmente attendere. I dati effettivi tra cui i restauratori dovrebbero muoversi sono tali che lo slittamento verso il militarismo diventerebbe non solo molto probabile, ma possiamo dire, ineluttabile. In primo luogo non sono atti a prendere le necessarie misure per creare delle perfette democrazie nazionali. Per procedere a questa opera dovrebbero saper utilizzare, ma non subire le pressioni particolari giungenti dal basso. Per loro natura, invece, sono portati a far proprie e ad esprimere le aspirazioni spontanee delle masse, cui fanno appello come sovrane.
Se analizziamo le principali aspirazioni da cui queste masse sono tradizionalmente mosse nei vari paesi europei, troviamo che sono suscettibilissime di lasciarsi influenzare da motivi patriottici, classisti o sezionali. Vale a dire che son pronte ad esigere dai loro capi la difesa o la realizzazione di interessi concernenti la potenza e il prestigio del loro paese; o concernenti i privilegi di questa o quella classe, o concernenti i guadagni di questo o quel gruppo di mercato. Questi interessi possono essere fondati o immaginari, ma sono comunque sempre parziali, ed effettivamente incuranti nel modo più assoluto dei veri interessi generali, quantunque spesso camuffati come tali (2).
I democratici, desiderosi di rappresentare la volontà popolare, facilmente finirebbero per diventare, nelle loro varie tendenze, strumenti di questo o quel gruppo particolare, mirante a conquistare la direzione dello stato e ad impiegarne la forza per far valere i propri particolari interessi. Ma qualsiasi esclusivismo, economico, sentimentale, o ideologico, disponendo dell’arma sfrenata dello stato sovrano evocherebbe contromisure analoghe da parte di altri stati, avvelenando rapidamente l’atmosfera europea e generando di nuovo pericoli di guerra.
La mitologia democratica propende a credere che le guerre sieno dovute solo a loschi interessi di piccole minoranze, che le grandi masse sieno fondamentalmente pacifiche. Perciò, si pensa, quando i governi poggeranno su di esse, il pericolo delle guerre sarà praticamente eliminato. Si è affermato un tempo che le guerre erano causate dai particolari interessi dei re assoluti (3) e che sarebbero scomparse dalla faccia della terra il giorno in cui in tutti i paesi i popoli avessero potuto far valere le loro pacifiche intenzione. Si è invece visto che le democrazie, anche le più rispettose all’interno dei diritti dei loro cittadini, non trasportavano affatto queste loro virtù nei rapporti con l’estero, nei quali rimanevano egoiste, disposte all’esclusione e alla sopraffazione dei rivali. Anche in esse infatti, potevano benissimo farsi valere interessi particolaristici — talvolta dell’intero gruppo geografico, tal’altra di più ristretti gruppi (4), i quali finivano per proseguire la politica dei re assoluti. La rapidità con cui i nuovi stati sorti dalla rivoluzione francese e russa hanno ripreso in pieno la politica estera difensiva e offensiva dei rispettivi anciens régimes, appena mascherandole con le nuove parole, può essere istruttiva.
Non è infatti da credere che ci sieno strati della popolazione sulla cui avversione alla guerra si possa contare come su una peculiare virtù. Pacifisti sono solo i deboli che sanno a priori di essere battuti, o di essere impiegati come strumenti dei forti per fini non loro, e che deplorano, come si può ben comprendere, questo stato di cose. Coloro che dispongono della forza, se non c’è una legge superiore ad imporre una disciplina, sono sempre inclini ad adoperarla per difendersi, o per offendere. Perciò anche un popolo, una classe o un gruppo sociale qualsiasi, pacifista finché non disponga del potere, sarà pronto, quando lo detenga, ad impiegarlo per acquistare o difendere un privilegio. E in questo atteggiamento sta la radice della bellicosità.
4°) In secondo luogo, una tale restaurazione, tenendo come fulcro lo stato nazionale sovrano, prende per questo solo fatto una piega fatale, anche a prescindere dalla propensione democratica a farsi portavoce di interessi particolaristici, sentiti dalle masse.
Parlando dello stato moderno, non si deve prendere in considerazione solamente la sua possibilità di abusare della sovranità illimitata. Ancor più occorre tener conto del fatto che intorno allo stato si è consolidata tutta una fortissima tradizione storica, la quale gli attribuisce una specie di mistico valore assoluto. Lo stato deve ubbidire incondizionata-mente all’imperativo categorico che gli ordina di affermarsi e rafforzarsi. La civiltà moderna è riuscita a domare la prepotenza e la riottosità feudale solo a patto di attribuire tutta l’illimitatezza dei diritti che si toglievano agli individui, all’organismo statale sovrano che ad essi si sostituiva. È interessante notare che proprio quei paesi il cui regime è sorto dal regime feudale per diretta filiazione, non hanno attraversato questa fase di esaltazione dello stato, rintuzzandola anzi quando ha cercato di imporsi; e sono perciò anche i soli paesi che non hanno misticamente attribuito allo stato un assoluto fine a sé stesso, concependolo invece sempre solo come uno strumento per realizzare gli interessi comuni (5). In tutti gli altri paesi, dal più al meno, ed in modo preminente in Francia nel XVII e nel XVIII secolo, e in Germania nel XIX e XX, lo stato ha subito questa selvaggia deificazione, che ha avuto la sua incarnazione nella monarchia assoluta. Le democrazie europee si sono limitate a restringerne l’onnipotenza all’interno, lasciando intatto sotto ogni altro aspetto il suo trascendente valore assoluto, rafforzandolo anzi, coll’aggiungervi tutte le passioni nazionali che si andavano sempre più sviluppando, man mano che strati sempre più larghi del popolo partecipavano alla vita dello stato, vedendo legate al suo destino le proprie fortune.
Ora, è pur vero che astrattamente è concepibile che i restauratori democratici possano radicalmente estirpare questa tradizione, e ricostituire stati nazionali fondati solo su chiari presupposti razionali, scevri di ogni mistica deificazione (quantunque, se fossero talmente liberi dai tabù dello stato sovrano, non si capirebbe perché debbano sentire così urgente il bisogno di ricostituirlo, malgrado gli evidentissimi suoi inconvenienti). Ma questa radicale ricostruzione non è in realtà possibile, per poco che si rifletta alle effettive con-dizioni di fronte alle quali si troverebbero i restauratori.
Essi contano, come si è detto, di ristabilire le libertà popolari, quantunque sappiano che non tutti saranno disposti a rispettare le regole di gioco. Talmente è radicata in loro la credenza nella naturalezza del modo di comportarsi dell’uomo civile del secolo diciannovesimo, talmente sono convinti che spontaneamente le masse sieno capaci di scegliere la via buona, da credere ingenuamente che basterà fare opera di persuasione perché i veli cadano da occhi desiderosi solo di vedere, e si formino le necessarie maggioranze occorrenti per far funzionare i meccanismi democratici. Ma l’uomo fondamentalmente buono è un mito illuministico; le masse (popoli, classi ed altro) in cui misticamente alberghi una missione universale, sono un mito romantico; e nessuno dei due miti resiste all’esame critico. Le masse, di qualsiasi ceto sociale, spontaneamente sono solo capaci di provvedere ai propri interessi immediati, ricorrendo alla sopraffazione tutte le volte che appaion loro condizioni di successo. L’uomo civile che sa rispettare la libertà altrui e cooperare liberamente con gli altri, è forse la più elevata creazione che lo spirito umano si riuscita ad elaborare; ma è un frutto possibile solo se c’è come premessa un quadro di istituzioni disciplinatrici dei suoi impulsi.
Perciò il restauratore democratico può sì sognare i più rosei quadri di masse liberate dalla tirannide, le quali, commettendo magari qualche accidentale errore o atto terroristico di giusta vendetta, stabiliscano sovranamente di camminare dal momento della liberazione sulla via del progresso; ma, non appena passi dal sogno alla realtà, deve fare affidamento già preliminarmente su alcune salde istituzioni tradizionalmente riconosciute ed accettate dagli uomini, le quali possano costituire la prima necessaria cornice legale entro cui vengono ad esplicarsi le libertà popolari.
Il principale organismo che gli si offre per poter svolgere questa funzione, è lo stato nazionale. Ben lungi dal distruggerlo radicalmente, il restauratore che voglia fare una politica realistica, deve cercare di salvare nei momenti critici tutto quel che sia possibile salvare della forza dello stato, deve sostenere tutti i pilastri nel momento che minacciano di crollare, se non vuol veder naufragare completamente il suo sogno. Ogni altra esigenza passa in seconda linea di fronte a questa. Tale è il motivo profondo per cui i democratici tedeschi e spagnuoli, per non citare che i due esempi più recenti, hanno proceduto con tanta cautela rispetto alle tradizionali istituzioni dei loro stati, lasciando intatti gli apparati essenziali, malgrado la loro proclamata avversione ad essi. Ed è questo il motivo profondo per cui in altri paesi si vedono i restauratori rivolgersi ansiosamente, quando sentono avvicinarsi la tempesta, alle più conservatrici istituzioni, per le quali non hanno grande simpatia, ma che debbono sperare restino in piedi, fornendo loro un saldo sostegno.
Ora una situazione di tal genere non è davvero la più propizia per venire a capo delle tradizioni assolutistiche che compenetrano ogni poro dello stato nazionale europeo. Queste tradizioni potranno transitoriamente restar sommerse dalla marea popolare, ma rimarranno fisse nel modo di pensare della burocrazia statale, delle forze armate, della magistratura, delle scuole, e cercheranno di riaffermarsi ad ogni occasione, riconquistando il terreno perduto, man mano che la prima ondata sovvertitrice si plachi e gli uomini rientrino nella vita normale, nella quale tornino a veder troneggiare la divinità dello stato. La storia della repubblica di Weimar può essere presa come il caso tipico dei problemi in cui il restauratore democratico nazionale viene a trovarsi inestricabilmente impigliato. Per dare alla Germania una democrazia, i democratici hanno dovuto conservare i meccanismi dell’ordine: burocrazia, magistratura, quadri militari. E questi hanno poi inghiottito la democrazia (6).
Né bisogna, per ultimo, dimenticare che una restaurazione democratica nazionale significherebbe, data l’importanza politica ormai assunta da larghe masse popolari, una serie di estese misure nel senso di una maggiore eguaglianza economica. Ma questa implica un maggior numero di vincoli imposti dall’attività centrale all’attività dei singoli e dei gruppi, cioè una maggiore abitudine di disciplina nei popoli. Mentre dunque resterebbero in piedi tutti i motivi e le occasioni di attriti internazionali, mentre si sarebbe contribuito a salvare la stessa organizzazione cui gli europei attribuiscono tradizionalmente l’incontestato diritto di chiamarli a combattere e a morire, si svilupperebbero ulteriormente trasformazioni sociali che faciliterebbero enormemente una rapidissima totale militarizzazione dei vari paesi.
5°) L’assurdità della restaurazione democratica nazionale balza chiarissima agli occhi se si applicano tutte le precedenti considerazioni al concreto caso tedesco, che costituisce il problema centrale della vita europea. In Germania, la posizione geografica, le tradizioni storiche, gli interessi reali e immaginari dei singoli ceti e dell’intero popolo, la divinizzazione della potenza statale, la boria nazionale, l’esistenza di un’aristocrazia fondiaria e di un vasto ceto di ufficiali abituati al comando, le abitudini di ubbidienza del popolo, spingerebbero irresistibilmente, in un sistema internazionale di stati sovrani, qualsiasi regime a far uso della guerra. Tutte queste tendenze, anche se fossero per un momento represse, resterebbero sempre fortissime, quando pure in Germania si stabilisse, come avvenne nel 1918, una democrazia; lo sarebbero anche se artificiosamente si riuscisse a spezzare per qualche tempo, come si pensa da taluno, la sua unità statale. Le più larghe concessioni non riuscirebbero a placarla, se pure gli uomini politici degli altri stati fossero così imbecilli da mostrarsi generosi, col rischio di vederla dopo poco minacciosa in armi, più formidabile di prima. Le diffidenze e restrizioni che prevedibilmente la circonderebbero, contribuirebbero solo ad irrigidirla nella sua aspirazione al dominio. Ma con una Germania così fatta, nessun altro paese potrebbe fare a meno di essere militarista.
Bisogna essere ben ingenui per credere, dopo aver riflettuto su tutti questi problemi che, restaurati gli stati democratici nazionali, vi sia la pur minima probabilità che questi si avviino e permangano su una strada di pacifica convivenza, in capo al quale arrivino, nel debito corso del tempo, alla maturità politica necessaria perché tutti risultino convinti della convenienza di una istituzione super-statale, in modo che la federazione non si imponga ai popoli liberi, ma sia solo la simbolica espressione dell’ormai connaturata capacità di vivere senza guerre. Tutto quello che gli stati sovrani saprebbero fare in un momento di nausea per gli orrori della guerra, sarebbe una nuova S. d. N., cioè un’istituzione di unità solo simbolica, priva di qualsiasi forza effettiva, che non toglierebbe neppure un briciolo alla loro sovranità, ed in cui i rappresentanti delle potenze si riunirebbero a far mostra di pacifiche intenzioni, fino al momento in cui fosse di nuovo giunta l’occasione di battersi. E ci sarebbe magari di nuovo una serie di conferenze sul disarmo, che si aggirerebbero attorno all’insolubile problema di riuscire a trovare formule in cui ciascuno stato vedesse diminuire gli armamenti altrui, senza diminuire i propri.
È difficile rintracciare nella storia dell’umanità un altro periodo in cui abitudini civili sieno state così diffuse come nell’Europa del secolo XIX. La tragica agonia di quell’epoca ha pochi elementi casuali, e, quasi a controprova della sua ineluttabilità, la stessa generazione che ha visto la prima catastrofe, assiste ora al suo ripetersi. Non c’è proprio nulla di meglio da fare che prepararsi a ripercorrere ciecamente per una terza volta questo ciclo, accettandolo come un fato a cui non si possa cercar di sottrarsi? Non sarebbe meglio allora, malgrado una inevitabile ricaduta nella barbarie, la soluzione razzista, la quale spazzerebbe comunque via queste assurdità?
L’analisi dell’orientamento restaurazionista, ci ha dunque portati alla conclusione che, essendo prigioniero tanto del tabù dello stato nazionale sovrano quanto di quello della sovranità popolare, esso è divenuto intimamente contradittorio ed è perciò assolutamente incapace di ispirare l’operosità oc-corrente e liberare l’umanità dagli errori in cui si dibatte.
III. — IL COMUNISMO E L’UNITÀ EUROPEA.
1°) La cultura dei singoli e la civiltà dei popoli è tanto più elevata quanto è più ricca di finalità operanti, e quanto meglio riesce a farle convivere. Perché cultura e civiltà possano progredire, occorre perciò da una parte il lavoro di elaborazione degli strumenti atti a raggiungere fini determinati, dall’altra il lavoro di armonizzazione fra i vari fini. Il primo compito spetta all’intelletto, per il quale i fini sono dei presupposti, e che deve mirare solo al rigore logico con cui fa le sue costruzioni. Il secondo è il compito della saggezza, la quale stabilisce il punto oltre il quale non è più conveniente perseguire un fine particolare, poiché diversamente ne verrebbero soffocati altri cui egualmente si tiene; e cerca di concentrare l’attenzione su quelli che, in rapporto alle circostanze di fatto esistenti, acquistano un valore centrale, ed intorno ai quali vanno disponendosi e graduandosi variamente gli altri.
Ora, esser coerenti, quantunque sia abbastanza difficile, è infinitamente più facile che esser saggi, e accade di frequente che la cristallizzazione di energie causata dal perseguimento di un particolare fine, faccia talmente sfuggire la visuale, da nascondere il suo nesso con gli altri fini. E poiché l’importanza e l’utilità di un fine dipendono proprio da questo nesso, il risultato di questo atteggiamento consequenziario è che, se anche quello scopo specifico è raggiunto, si consegue qualcosa di deforme, immeritevole dello sforzo compiuto, e che non contribuisce affatto, come pur si sarebbe voluto, all’elevazione della vita umana.
Il più cospicuo orientamento consequenziario dei nostri giorni nel campo della politica, è quello comunista, il quale risponde originariamente al fine delle classi operaie di liberarsi dalla miseria in cui si trovano e di aver così l’opportunità di godere dei frutti della civiltà, da gran parte dei quali sono escluse. Esso risponde perciò ad una esigenza che ha il suo naturale posto nella linea di sviluppo della nostra civiltà. Non è qui il luogo di occuparci dell’origine e degli svolgimenti del comunismo nel suo complesso, né di chiederci se l’unilateralità con cui ha determinato il suo fine o lo persegue, tenda effettivamente a produrre il desiderato ampliamento della civiltà moderna. Ci interessa solo esaminare la sua posizione di fronte al problema dell’anarchia internazionale.
Potrebbe sembrare che ci siamo qui infine imbattuti in uomini i quali abbiano intravisto la soluzione. I comunisti denunziano infatti da tempo in modo vigoroso l’imperialismo generatore di guerre, non sono legati a tabù nazionali, ed auspicano l’unione dei popoli. Se però si esamina più da vicino questa loro propaganda, si scorge senza possibilità di equivoco che in realtà i comunisti, come i democratici, non hanno mai seriamente affrontato il problema dell’ordine internazionale, e sperano che si risolverà da solo. Quantunque sia evidente che questo problema ha acquistato un’importanza centrale, e che è il suo modo di soluzione a dare un senso agli altri connessi problemi della nostra civiltà, il consequenziario comunista non riesce a rendersene conto, e continua a credere che la questione centrale sia quella dell’abolizione del capitalismo. Raggiunta questa, tutto il resto verrebbe da sé, quasi per grazia divina. L’internazionalismo socialista e comunista è dello stesso tipo di quello democratico. Come questo crede che i popoli andranno d’accordo spontaneamente purché si eliminino i regimi dispotici, così i comunisti credono che i proletari aboliranno imperialismo e guerre, per il solo fatto di abolire nei loro paesi il capitalismo.
Esaminiamo infatti più particolarmente il loro atteggiamento rispetto alla nostra questione.
Dopo l’epoca della formulazione dei cosidetti «utopisti» che pensavano alla costituzione di piccole comunità autarchiche, gestite collettivamente, il pensiero socialista, allargando i suoi orizzonti, è giunto all’idea che solo una organizzazione collettivista abbracciante l’intera umanità poteva funzionare in modo effettivo. Questa idea non era tuttavia una reale direttiva d’azione, ma costituiva semplicemente l’immaginario prolungamento nel futuro di tendenze che si assumevano senz’altro come già operanti in modo irresistibile in quell’epoca. Si erano convinti che il regime borghese spingesse in questo senso, e che non ci fosse altro da fare che procedere oltre. «Le delimitazioni e gli antagonismi dei popoli — scriveva Marx nel 1848 — vanno via via sparendo, per lo stesso sviluppo della borghesia, per la libertà di commercio, per l’azione del mercato mondiale, per l’uniformità della produzione industriale e per le condizioni di esistenza che ne derivano. Quelle differenze e quegli antagonismi spariranno ancor di più per effetto della supremazia del proletariato. L’azione combinata, per lo meno dei proletari dei paesi civilizzati, è una condizione prima della liberazione del proletariato. A misura che verrà abolito lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, verrà anche meno lo sfruttamento di una nazione sull’altra. Caduto che sia il contrasto delle classi nell’interno delle nazioni, finirà anche l’antagonismo fra le nazioni stesse».
Come si vede, il collegamento delle idee è il seguente:
1°) Esistenza di una tendenza borghese all’eliminazione dei contrasti internazionali;
2°) Abolizione del contrasto delle classi nell’interno delle singole nazioni;
3°) Conseguente automatico perfezionamento di quella tendenza internazionalizzatrice. L’azione combinata dei proletari dei principali paesi non ha che da camminare su una strada già tracciata. Che nessun particolare sforzo occorresse per tracciarla, è dimostrato dal fatto che, quantunque quel concentramento di azione sia considerato come una delle con-dizioni prime, tuttavia Marx non sentiva nessuna contraddizione nell’affermazione che precede immediatamente il brano citato: «Poiché il proletariato di ogni paese deve anzitutto conquistare il potere politico, deve elevarsi a classe nazionale e deve costituirsi in nazione, perciò esso è e rimane ancora nazionale, sebbene sia tale in senso affatto diverso da quello della borghesia».
2°) La prospettiva cobdenista, accettata in pieno da Marx, secondo la quale l’intensificazione dei traffici tra i popoli avrebbe abolito gli antagonismi nazionali, è risultata errata. È vero che grandi interessi capitalistici esistevano ed esistono tuttora, i quali sono favorevoli al libero scambio, ma lo sviluppo effettivo è stato un rafforzamento degli antagonismi nazionali, i quali hanno disturbato, rallentato, e quasi finito col distruggere i traffici economici. Questo contrasto tra la teoria e lo sviluppo generale storico ha portato i socialisti, e quindi i comunisti, a rivedere il loro presupposto cobdenista, ma non ha portato a nessuna sostanziale alterazione nell’effettiva linea di condotta dei movimenti proletari.
Si è infatti stabilito, man mano che l’Europa cominciava a coprirsi di armamenti, che esisteva un nesso diverso tra capitalismo ed imperialismo. Non è qui il luogo di criticare questa teoria che generalizza e dà valore di legge assoluta a particolari casi di significato contingente, senza approfondirne l’analisi (7) Dobbiamo però osservare che di fronte al rilievo grandissimo dato in tutta la letteratura socialista al pericolo di guerra e al posto crescente che nella sua propaganda prendeva il tema internazionalista, non ci sono opere effettive del proletariato organizzato che abbiano contribuito a creare istituzioni capaci di ridurre veramente il pericolo di guerra, mentre ci sono atti che hanno contribuito, sia pure involontariamente, a creare attriti che accentuano la tensione internazionale.
Ma la teoria dell’imperialismo capitalista non doveva servire a far rivolgere gli sforzi dei proletari nel senso della lotta contro la guerra. Era un mezzo propagandistico diretto ad attirare le forze antimilitaristiche sul terreno anticapitalista. Da una parte ci si rendeva conto dell’antitesi fra spese militari e spese sociali, e si mirava perciò a deprimere quelle quanto più fosse possibile; e dall’altra c’era un più o meno demagogico venire incontro all’inconsistente pacifismo, caratteristico, come si è detto, di coloro che si sentono destinati ad essere strumenti passivi e non soggetti attivi della politica bellicosa.
3°) L’effettiva politica proletaria continuò a rimanere infatti anche dopo questa correzione teorica una politica di orizzonte nazionale, quantunque gli stati nazionali andassero diventando sempre più imperialisti. Ciò non si può attribuire semplicemente ad una casuale miopia dei socialisti, e tanto meno, come si è detto, talvolta, al loro «tradimento». La restrizione all’ambito nazionale è connaturata all’effettiva direzione dei partiti miranti all’instaurazione del collettivismo. Ogni misura collettivista significa infatti attribuzione della gestione di qualche settore economico al supremo potere po-litico, cioè al potere cui gli uomini riconoscono il diritto di legiferare sulla loro condotta.
Ora nell’Europa moderna il potere politico supremo è quello dello stato nazionale. Questo fatto segnava necessariamente i limiti della nazione. Sono esistiti tra socialisti sempre forti dissensi circa la convenienza di far prendere allo stato una serie gradualmente progressiva di misure di collettivizzazione, in modo da dargli un carattere man mano più socialista, o la convenienza di una radicale trasformazione in questo senso da raggiungere per via rivoluzionaria.
Ma queste divergenze, per importanti che possano essere sotto altri aspetti, sono irrilevanti per quel che concerne la questione del carattere nazionale o internazionale della politica da seguire. Lasciando da parte la tendenza socialista perché molto più incoerente, esaminiamo quella conseguente dei comunisti. Quando nel corso dell’altra guerra si aprirono prospettive di azione rivoluzionaria per l’instaurazione di un ordinamento socialista, il più rigoroso politico di questa tendenza, Lenin, tratteggiava in tal modo l’instaurazione del socialismo: «L’avocazione della vita economica allo stato, contro la quale il liberalismo capitalistico oppone resistenza, è ormai un fatto compiuto. Non soltanto alla libera concorrenza, ma neanche al dominio dei trusts, dei sindacati e di altre mostruosità economiche vi è alcun sintomo di ritorno. La questione sta unicamente nello stabilire chi in avvenire sarà il regolatore della produzione dello stato: lo stato imperialista o lo stato del proletariato vittorioso?» (8).
La rivoluzione socialista sarebbe stata per lui, conformemente alla dialettica marxista, la negazione, ma anche la più radicale prosecuzione del collettivismo di guerra, realizzato già in misura più o meno estesa dai regimi esistenti. Lenin si prospettava a ritmo acceleratissimo e attraverso una catastrofe, la realizzazione dello stesso processo perseguito dai socialisti riformisti. Come strumento della realizzazione socialista, non poteva perciò vedere altro che lo stato nazionale esistente, il quale aveva già così avviato l’opera di collettivizzazione.
I comunisti assicurano tuttavia che, una volta eliminata la borghesia colpevole degli attriti e delle guerre, gli stati socialisti nazionali non troverebbero nessuna difficoltà ad unificarsi ed a pianificare in modo unitario l’economia mondiale (9).
Ma quest’asserzione non è affatto dimostrata. È anzi di-mostrato precisamente il contrario.
In una economia collettivizzata, lo stato dispone delle risorse principale del paese, e procede secondo piani. Perciò i necessari scambi internazionali e i necessari spostamenti di lavoratori non si potrebbero svolgere in modo spontaneo, ma in base a trattative e ad accordi fra le varie comunità socialiste. Siamo di fronte non ad un caso di concorrenza semplice in cui le ragioni di scambio fra le merci e i salari sono determinati dal mercato in modo univoco. Il caso delle relazioni economiche tra comunità socialiste è invece del tipo che gli economisti hanno chiamato della concorrenza fra monopoloidi. I rapporti di scambio sono indeterminati. Ogni comunità più ricca e meglio ordinata tenderebbe a rifiutarsi di ricevere l’immigrazione dai paesi più poveri e specialmente da quelli che non saprebbero darsi un ordine politico soddisfacente. In regime capitalistico le tensioni internazionali avvengono di solito per restrizioni poste ai traffici; in regimi di socialisti nazionali le tensioni avverrebbero ogni volta che sorgesse il bisogno di fare uno scambio fra comunità. I contrasti economici sarebbero moltiplicati all’infinito, trasformando in questione di politica internazionale ogni rapporto commerciale con l’estero, e generando odi fra paesi ricchi di materie prime e paesi scarsamente forniti, fra paesi sovrapopolati e paesi a scarsa densità demografica.
E non ci sarebbero solo i motivi economici a generare attriti. Si può supporre che gli stati comunisti, sorgendo da radicali sovvertimenti, vengano a trovarsi, almeno al principio, completamente scevri del mistico spirito imperiale insito in tutte le istituzioni dello stato moderno. Ma la loro base sarebbe pur sempre la nazione, sia pure sbarazzata dai borghesi, e il compito supremo dello stato socialista resterebbe quello di provvedere all’interesse degli abitanti della nazione. Le differenze nazionali di cui da secoli è intessuta la vita europea, i contrasti per la delimitazione dei confini nelle zone di popolazione mista, il bisogno che ogni comunità nazionale sentirebbe di avere uno sbocco indipendente sul mare, ecc., non scomparirebbero per il fatto che le varie comunità nazionali fossero diventate socialiste. A questi tradizionali motivi di attrito si aggiungerebbero i dissensi ideologici nuovi che potrebbero sorgere fra i governanti comunisti dei vari stati, e che non potrebbero più essere liquidati con la facilità con cui ora la terza Internazionale modifica le centrali dei partiti comunisti. Non è facile immaginare una pacifica convivenza, poniamo, tra uno stato diretto da socialisti ed uno diretto da comunisti, o fra uno stato comunista staliniano e uno trotzkista.
Chiudendo questa breve rassegna dell’atmosfera internazionale in cui vivrebbero gli stati socialisti nazionali, dobbiamo dire che i punti intorno ai quali possono cristallizzarsi contrasti irrimediabili, sono innumerevoli, anzi si moltiplicano; i mezzi per risolversi, inesistenti. La conclusione da trarre è facilmente immaginabile: poiché la responsabilità dell’imperialismo non risale necessariamente al capitalismo, l’abolizione di quest’ultimo non sopprime l’imperialismo ma semplicemente toglie dal novero dei fattori che l’alimentano alcuni sinistri interessi capitalistici, aggiungendo in via di compenso alcuni interessi specificamente socialisti (10).
4°) Si potrebbe obiettare che la prospettiva di Lenin indica una via, ma non la sola via possibile per il raggiungimento del socialismo; e che i comunisti, non essendo prigionieri di alcun pregiudizio nazionalista, potrebbero anche impostare in modo corretto la lotta in termini di socialismo internazionale e di potere politico internazionale, più corrispondente al loro orientamento sentimentale internazionalista. In realtà non sembra ci sia oggi fra loro il minimo tentativo di avviare una tale impostazione. Disorientati, al pari dei democratici, dagli avvenimenti che hanno rovesciato tutti i loro tradizionali schemi e che li costringono a combattere a fianco niente meno che dei due stati più capitalistici del mondo, anche loro si rifugiano ora sulla linea di resistenza della democrazia nazionale, auspicando la ricostituzione degli stati sovrani democratici. Anche per loro, come per i democratici, benché per motivi diversi, lo stato nazionale è la premessa necessaria per il raggiungimento degli ulteriori fini. A rigore, nulla potrebbe impedire che essi, o alcuni di loro, riconoscessero che, essendo il comunismo realizzabile solo su scala internazionale, occorrerebbe prepararsi a far piani per combattere, se non per un unico stato socialista mondiale — troppo difficile a costruirsi — almeno per una federazione continentale europea (11). In realtà, per spostarsi sul terreno della lotta federale in modo effettivo, i comunisti dovrebbero sottoporre a una autocritica abbastanza profonda tutto il loro orientamento. Questo consiste in una «Fixierung» come direbbe Freud, di sentimenti, di idee, di tattica, di disciplina, di organizzazione, intorno al problema della lotta contro il capi-talismo. Tutto quel che non rientra in questi termini, è sottoposto ad una violenta deformazione o è ignorato. Sanno adattarsi mimeticamente alle più strane circostanze, ma il loro punto di riferimento è sempre lo stesso. Però, vedere nel capitalismo il nemico fondamentale da eliminare, implica proporsi di trasferire, non appena l’occasione se ne offra, la maggior parte dei mezzi di produzione dagli imprenditori privati allo stato. E l’unico stato esistente è quello nazionale. Ciò li chiude in un cerchio magico.
Per riuscire a comprendere che la questione dell’ordine internazionale è connessa con i problemi dell’ordinamento economico-sociale in modo più completo di quanto essi non ritengano, quella cristallizzazione dovrebbe essere rotta. Problema centrale diverrebbe il problema di dar forza al nuovo ordine internazionale, faccenda che in gran parte non ha a che fare coll’esistenza o meno del capitalismo, ma riguarda istituti politici, giudiziari, amministrativi, militari da creare. Non dovrebbero appellarsi più solo ai sentimenti anticapitalistici, poiché tutte le forze libero-scambiste sarebbero favorevoli al nuovo ordine. Il problema delle collettivizzazioni da eseguire esisterebbe pur sempre, ma come problema inquadrato fra gli altri necessari per un più vitale ordinamento della società europea, e non più come quello assolutamente preminente. Anche se in un più lontano futuro, quando la sovranità del nuovo stato federale fosse diventata una cosa perfettamente naturale per tutti, come oggi lo è quella dello stato nazionale, si dovesse ripresentare il problema se affidare o no allo stato federale la gestione esclusiva di tutta l’economia, certo è che tale domanda non potrebbe essere effettivamente proposta per tutta un’epoca, nella quale il compito politico fondamentale sarebbe quello di consolidare la nuova più ampia sovranità. La fusione delle varie economie nazionali in un’unica economia europea non potrebbe essere seriamente affrontata pensando di sovrapporre una pianificazione federale ai vari collettivismi nazionali, perché ciò presumerebbe uno strapotente governo federale. Occorrerebbe invece lasciar via libera alle spontanee forze del commercio, e cioè occorrerebbe demolire gran parte dei collettivismi nazionali esistenti, ad uno dei quali i comunisti si sentono fondamentalmente legati, e, quanto agli altri, hanno sempre pensato che bisognasse semplicemente spingerli ancor più innanzi in senso collettivista.
Sarebbero capaci i comunisti di eseguire una tale revisione di tutte le loro direttive? Si noti che non si tratta di fare una politica tattica. Nel nostro caso ciò servirebbe a ben poco. Non si tratta infatti di far proseliti mediante una bandiera buona ad attirare gli ingenui, per procedere poi con le forse acquisiste a realizzare il proprio programma di collettivizzazione ad oltranza appena riusciti ad acciuffare il potere. Si tratta infatti di capire che proprio questo programma è inadeguato al fine dell’unità europea.
Sarà bene indicare anche che cosa implicherebbe una tale revisione per il paese in cui il comunismo ha il potere in mano. In Russia sviluppare il tema dell’unità europea significa far compiere al popolo russo un altro passo verso la sfera della civiltà europea, e rientra perciò nella secolare faticosa tendenza russa ad occidentalizzarsi. Ma significa anche la necessità di smontare buona parte del sistema economico creato, e degli interessi economici e politici che vi sono cristallizzati intorno.
5°) Il collettivismo nazionale non è dunque un rimedio contro l’imperialismo. Il tema non è però esaurito, perché occorre tenere ancora presente che la tendenza al collettivismo non è, come credono i comunisti, una tendenza specifica del proletariato.
Il proletariato, come tutte le classi più povere, ha interesse a misure di collettivizzazione giungenti solo fino al punto in cui si vengano a sopprimere privilegi, monopoli, ed in genere possibilità di sfruttare ad esclusivo vantaggio di singoli, e con danno della collettività. Ma, come qualsiasi altro ceto non parassitario, i proletari hanno interesse ad essere liberi di lavorare e produrre secondo la loro scelta, le loro capacità e a loro rischio.
La tendenza al collettivismo totale è invece profondamente inerente allo stato militarista. Uno stato, il cui fine più importante sia quello di prepararsi alla guerra e di condurla, non può fare a meno di stender le mani su tutte le risorse umane e materiali di cui ha bisogno. È noto che Napoleone attuò molte statizzazioni, e molte più ne progettò, non per rispondere agli interessi della borghesia, ma onde poter disporre di maggiori risorse per condurre la guerra. L’unica differenza fra i tempi di Napoleone e i nostri è che ormai la guerra non esige più solo l’impegno di una quota delle ricchezze degli uomini di un paese, ma praticamente l’utilizzazione al cento per cento delle risorse del paese in cui lo stato è sovrano; cioè spinge alla realizzazione di un radicale collettivismo. Gli esempi dell’altra guerra e di questa parlano da sé.
Se esaminiamo con occhio spregiudicato la storia successiva al 1918, vediamo che il comunismo ha sì vinto solo in un paese, ma che tanto in quello come in tutti gli altri in cui non è riuscito o è stato represso nel modo più duro, la nazionalizzazione ha fatto notevoli passi innanzi (12), servendo a facilitare e rafforzare sempre più le politiche militariste. Ma questa nazionalizzazione ha avuto ben poco a che fare (salvo che nelle varie spicciole propagande) coll’effettiva emancipazione delle classi lavoratrici. Anche in Russia, dove si è realizzata più che altrove secondo le vedute dei comunisti, poiché il socialismo è stato costruito da loro stessi, ha sì contribuito a far progredire un popolo arretratissimo, ma non tanto a farlo progredire nel senso di una elevazione delle classi lavoratrici, quanto in quello di una maggiore potenza militare. La perdita della libertà di movimento per gli operai e per i contadini, la crescente differenziazione fra il tenore di vita dei lavoratori e quello della burocrazia dirigente, la dura repressione di ogni libertà, fan rimanere molto scettici circa il raggiungimento del primo scopo. L’energia mostrata, nel tenere testa alla Germania mostra il consegui-mento del secondo.
I motivi propagandistici su cui i comunisti fan leva per adunare forze sufficienti per dare l’assalto alla cittadella capitalistica, possono essere adoprati con altrettanta efficacia da coloro che vogliono sviluppare il collettivismo militarista, come hanno mostrato in modo quanto mai brillante i nazisti. Costoro possono inoltre, a differenza dei comunisti, raddoppiare l’efficacia della loro propaganda, aggiungendo ai motivi anticapitalistici quelli nazionali che risultano essere i più profondamente sentiti dal volgo moderno.
Ma se anche, nonostante la formidabile concorrenza della propaganda del collettivismo militarista, i comunisti potessero riuscire a vincere in tutta una serie di paesi e ad instaurare i collettivismi proletari, avrebbero lasciato assolutamente intatto tutto l’anarchico sistema degli stati nazionali coi loro «sacri egoismi» finendo con lo scivolare anche essi ineluttabilmente sul terreno del loro avversario, del collettivismo militarista.
IV. — LA FEDERAZIONE EUROPEA.
1°) Può darsi che la nostra civiltà non riesca a superare la crisi attuale, e che, dopo una lunga agonia, dia luogo a formazioni più primitive e rozze. Non c’è nessun piano provvidenziale, nessuna necessità storica che ne imponga l’ulteriore prosecuzione. Se questa avrà luogo, sarà solo perché gli uomini sapranno concentrare attenzione e sforzi sufficienti per individuare i mali che la minano e per mettere in opera i necessari rimedi. E lo faranno, se ci terranno a conservare i principali valori che la compongono. Se non si attribuisce alcun valore alla libertà, cioè ad un tipo di società in cui gli individui non sieno strumenti di forze che li trascendono, ma autonomi centri di vita, se non si attribuisce valore alla giustizia, cioè a un tipo di società in cui la libertà non sia riservata a piccole minoranze privilegiate, ma sia un bene effettivo, e non solo formale, di cui dispongano strati sempre più vasti — non vale la pena di occuparsi della salvezza della nostra civiltà. Non è possibile dimostrare che questi fini debbano essere perseguiti e non tenteremo perciò di assumerci l’impossibile compito. «Questo discorso — per adoperare le parole di Meister Eckhart — non è detto per alcuno se non per chi lo chiama suo come la propria vita, od almeno lo possiede come una brama del cuore».
Ma non basta tenere a quei valori. Ci si può tenere in modo irragionevole, non immaginandone la realizzazione altro che nelle forme vecchie o in forme unilateralmente consequenziarie. In ambedue i casi il risultato è, come si è visto, negativo, perché non si è saputo scorgere il ragionevole coordinamento dei fini e la costruzione adeguata dei mezzi.
Nell’armonia continuamente variabile dei molteplici fini scaturenti dall’orientamento della civiltà europea, a volta a volta alcuni di essi acquistano un’importanza preminente, dando il tono a tutti gli altri. Proprio a causa della reciproca relazione esistente fra tutti, non è però possibile procedere ogni volta a realizzare in modo esauriente quello centrale, creando tutti gli ordinamenti necessari per renderlo operante in pieno, e poi passare man mano agli altri. Al contrario, dal modo stesso come si vien lavorando, nasce un continuo spostamento nell’ordine dei valori, e l’attenzione si deve con-centrare su un altro punto. Così, prima ancora che fosse esaurito il compito civilizzatore delle monarchie assolute, precedente alla estirpazione dell’anarchia feudale ed allo stabilimento dell’impero della legge nell’interno delle singole nazioni, diventò preminente l’esigenza di far partecipare strati via via più larghi dei popoli alla determinazione delle leggi stesse. E, avviata la formazione di ordinamenti politici liberi, si spingeva al primo piano il processo contro le disuguaglianze sociali. Ma tutto questo lungo e complesso lavorio ha reso acutissimo il problema dell’ordine internazionale e dal modo come questo è risolto dipende ormai la possibilità del perseguimento armonico degli altri fini. Credere che il male scaturente dall’anarchia internazionale guarirà da sé, e che si debba continuare ad occuparsi delle cose secondo il vecchio ordine, è fare la politica dello struzzo. Abbandonata a sé, l’anarchia internazionale si risolve nella distruzione della stessa civiltà moderna, e nella costituzione di un impero militarista basato sul principio della signoria dei vincitori e della servitù dei vinti. Non rendersi conto di ciò, significa comportarsi irrazionalmente, o, per adoperare una parola più semplice, stupidamente.
Volendo avviare un esame razionale del problema del-l’ordine internazionale, occorrerà rispondere a questi tre principali quesiti:
a) Quali sono gli ordinamenti necessari per eliminare la presente anarchia internazionale?
b) Vi sono nella società forze sufficienti profondamente interessate al mantenimento di questi ordinamenti?
c) Come è possibile sganciarle dalle vecchie tradizioni rivelatesi inadeguate e perniciose?
2°) I mali dell’anarchia internazionale non provengono da altre cause estranee all’assenza di una legge internazionale, ma proprio da questa assenza. Per provvedere all’interesse comune, deve esistere un organismo apposito, capace di imporre la realizzazione di quell’interesse. Se questo organismo manca, se gli unici ordinamenti esistenti sono adeguati solo al raggiungimento di interessi particolari, allora, a meno che non si creda ad una provvidenza divina, evidentemente non è possibile evitare un corso delle cose in cui ciascuno provveda ai suoi particolari interessi, incurante del danno che infligge ad altri, in modo da dar luogo al sorgere di attriti e tensioni, che non possono essere infine risolte altro che mediante il ricorso alla forza.
L’eliminazione di questi mali non può perciò consistere in altro che nella formazione di istituzioni che elaborino ed impongano una legge internazionale, la quale impedisca il proseguimento di fini giovevoli solo ad una nazione, ma dannosi alle altre.
Questa soluzione appare lapalissiana, ogni volta che si tratti dell’ordine interno di una nazione; ma, non appena si tratta dell’ordine internazionale, agli uomini della nostra epoca nazionalista sembra strana, utopistica, violentatrice della più profonda ed immutabile natura umana, e ci si ingegna a formulare sofismi per esimersi dall’affrontarla. Allo stesso modo si comportarono un tempo rispetto alla formazione delle unità nazionali gli uomini dell’epoca feudale, ai
quali naturale ed ovvio appariva solo l’ordine nell’ambito dei castelli, delle contee, dei comuni.
Quest’ordine internazionale può essere creato mediante un impero che riduca gli altri stati a suoi vassalli. La legge allora è quella imposta dallo stato dominante; la forza necessaria per imporre la legge è quella dello stato titolare dell’impero. È questo il metodo più primitivo; più di frequente realizzato nella storia umana, ed oggi assistiamo ad un tentativo in grande stile e condotto con grande coerenza per realizzarlo ancora una volta. Se lo si respinge, non è perché fa uso della violenza per stabilirsi, ma perché per tutta un’epoca sarebbe basato sulla violenza, sulla disuguaglianza dei popoli, sul loro sfruttamento da parte del dominatore, sull’esaltazione mistica dell’impero, sull’ulteriore tendenza al dominio universale, sul permanente suo carattere militarista.
Ma quest’ordine può anche essere creato in modo più con-forme alle nostre esigenze fondamentali, mediante un ordinamento federale, il quale, pur lasciando a ogni singolo stato la possibilità di sviluppare la sua vita nazionale nel modo che meglio si adatta al grado e alle peculiarità della sua civiltà, sottragga alla sovranità di tutti gli stati associati i mezzi con cui possono far valere i loro particolarismi egoistici, crei ed amministri un corpo di leggi internazionali al quale tutti egualmente debbono essere sottomessi (13).
I poteri di cui l’autorità federale deve disporre, sono quelli che garantiscono la fine definitiva delle politiche nazionali esclusiviste. Perciò la federazione deve avere l’esclusivo diritto di reclutare e di impiegare le forze armate (le quali dovrebbero avere anche il compito di tutela dell’ordine pubblico interno); di condurre la politica estera; di determinare i limiti amministrativi dei vari stati associati, in modo da soddisfare alle fondamentali esigenze nazionali e di sorvegliare a che non abbiano luogo soprusi sulle minoranze etniche; di provvedere alla totale abolizione delle barriere protezionistiche ed impedire che si ricostituiscano; di emettere una moneta unica federale; di assicurare la piena libertà di movimento di tutti i cittadini entro i confini della federazione; di amministrare tutte le colonie, cioè tutti i territori ancora incapaci di autonoma vita politica.
Per assolvere in modo efficace a questi compiti, la Fede-razione deve disporre di una magistratura federale, di un apparato amministrativo indipendente da quello dei singoli stati, del diritto di riscuotere direttamente dai cittadini le imposte necessarie per il suo funzionamento, di organi di legislazione e di controllo fondati sulla partecipazione diretta dei cittadini e non su rappresentanze degli stati federati.
Questa, in iscorcio, è l’organizzazione che si può chiamare l’organizzazione degli Stati Uniti d’Europa, e che costituisce la premessa indispensabile per l’eliminazione del militarismo imperialista.
Data la preminenza che l’Europa ha tuttora nel mondo, come centro di irradiazione di civiltà, e dato che è stata sempre, con le sue lotte intestine, l’epicentro di tutti i conflitti internazionali, la definitiva sua pacificazione, nel quadro delle istituzioni federali, significherebbe il più grande passo innanzi verso la pacificazione mondiale, che possa essere fatto nelle attuali circostanze.
3°) Evidentemente non basta che un ordinamento abbia meriti intrinseci. Perché venga realizzato, occorre vedere se intorno ad esso, a suo sostegno permanente, ci sia da attendersi che si schierino, nella civiltà moderna, imponenti forze vitali, non destinate a dissolversi rapidamente; tali che, per farsi valere, sentano di aver bisogno di quell’ordinamento e sieno perciò disposte ad agire per mantenerlo in vigore. Sarebbe inutile costruire un edificio che nessuno fosse poi interessato a conservare, anche se, per qualche favorevole con-giuntura, si trovassero forze sufficienti per costruirlo.
L’indagine rivolta all’individuazione di queste forze non ci darà senz’altro un’indicazione circa le forze che saranno disposte a combattere per realizzare la federazione, poiché molti individui e gruppi, quantunque obbiettivamente interessati alla sua realizzazione, potrebbero in realtà trovarsi ingranati in modo così stretto in altri orientamenti di sentimenti e di azioni, da proseguire lungo la strada imposta da questi, restando indifferenti, ignari e magari ostili a quel cammino che risponderebbe molto meglio ai loro interessi più profondi. Ciò costituirà oggetto di un ulteriore esame nel paragrafo 4°). Qui si vogliono vedere solo se la federazione, qualora riesca ad essere creata, sia soggetta a restare una faccenda interessante solo pochi dottrinari politici, e possa invece diventare veramente un bene pubblico, sentito come tale da larghe masse.
Se diamo uno sguardo nel campo della cultura europea, vediamo che larghissimi strati intellettuali hanno una formazione spirituale determinata dalle attuali predominanti educazioni. Nella misura in cui presso costoro prevalgono considerazioni di ordine intellettuale, essi hanno una tendenza verso posizioni nazionalistiche, come lo ha mostrato la forte presa esercitata nel campo della media cultura dalle ideologie sciovinistiche e razziste. Ma la cultura europea ha da molto tempo superato i gretti limiti nazionali, e la sua fioritura ha un carattere cosmopolitico. Lo strato più elevato della cultura europea è al di là di qualsiasi nazionalismo, ed è anzi condannato ad isterilirsi e perire se l’Europa procederà ancora sulla via dei nazionalismi, poiché questo corso gli toglierebbe l’alimento del libero scambio mondiale delle idee, e gli impedirebbe di esercitare la sua naturale funzione di indicare agli strati meno colti le vie dell’elevazione spirituale. La federazione europea sarebbe la garanzia del cosmopolitismo intellettuale, e della possibilità, per l’alta cultura, di esercitare la sua funzione di guida. In questo campo, la federazione potrebbe perciò contare sul sostegno dell’elemento più alto e più fecondo, e sulla resistenza di larghi strati dell’elemento più mediocre, destinato a svanire quando non ci fosse più una voluta politica nazionalistica interessata a formare artificiosamente atteggiamenti spirituali non più corrispondenti al grado effettivamente raggiunto dallo spirito.
Nel campo politico è da contare sull’ostilità, che non cesserebbe senz’altro con l’instaurazione dell’unità federale, di coloro la cui potenza è connessa immediatamente con l’esistenza degli stati nazionali, e che dalla riduzione dell’assoluta sovranità di questi vedrebbero abolito o sostanzialmente ridotto il loro potere; intendiamo parlare degli attuali governanti, degli strati superiori degli apparati statali civili, e ancor più di quelli militari. Costituiscono costoro l’ostacolo più formidabile, poiché sono gli uomini che hanno maggiore esperienza nel comando e incarnato la più forte tradizione nel mondo europeo. Anche sbalzati dal potere, a lungo andare si sforzerebbero di arrestare, se non addirittura distruggere, lo sviluppo del potere federale. Dietro a costoro troviamo gli strati parassitari o comunque privilegiati della società attuale. A rigore, essi potrebbero mantenere la loro situazione in un ordinamento federale, quanto in uno stato nazionale; ma poiché una federazione europea non è realizzabile che in occasione di una crisi rivoluzionaria e poggiando su forze rivoluzionarie, cioè fondando la sua causa con quella indirizzata a colpire direttamente tutte le posizioni privilegiate, questi ceti (costituiti dai grandi proprietari fondiari, dai dirigenti delle aziende che andrebbero socializzate, dalle alte gerarchie ecclesiastiche, ecc.) sarebbero indotti a militare senz’altro nelle file molto più congeniali delle reazioni nazionali.
Questi interessi ostili, molto forti all’inizio, quando fosse recente e perciò più cocente la perdita del potere, e più facilmente sfruttabile l’idiotismo nazionale ancor vigoroso, non troverebbero però alimento nella vita federale, e la loro curva sarebbe progressivamente declinante. I sentimenti nazionali, in quello che hanno di sano, non sarebbero necessariamente ostili. Man mano che divenisse chiaro come un normale sviluppo delle esigenze nazionali sarebbe garantito molto meglio da un imparziale ordine federale che dalla continua reciproca sopraffazione delle varie nazioni, i sentimenti nazionali andrebbero perdendo la loro virulenza e, finirebbero col convivere pacificamente entro l’ambito federale.
Interessate a sostenere l’unità europea sarebbero invece le correnti progressiste, non appena avessero scorto quale fondamentale garanzia essa costituisca per la loro efficace operosità. L’attuale sviluppo del militarismo e delle autarchie nazionali ha diretto verso improduttivi scopi bellici una enorme quantità di risorse; ha impedito la più fruttuosa esplicazione di tutte le energie, ed ha spinto per vie aberranti, soffocato e paralizzato completamente, i movimenti, specialmente quelli delle classi lavoratrici, che non potevano acquetarsi nell’accettazione della struttura sociale esistente, ma miravano a modificarla in modo che soddisfacesse alle loro giuste esigenze. La federazione europea riduce al minimo le spese militari, permettendo così l’impiego della quasi totalità delle risorse a scopi di elevazione del grado di civiltà. Con l’abolizione delle assurde barriere autarchiche permette un immenso sviluppo della produzione, creando così la necessaria premessa per una trasformazione sociale vitale, cioè fondata su un alto tenore di vita. Fa scomparire l’attuale necessità di permanenti regimi dispotici, lasciando libero giuoco ai movimenti sociali di emancipazione (14).
Uno spettacolo analogo scorgiamo se ci volgiamo al campo della vita economica. Anche qui troveremmo una forte difficoltà iniziale, destinata però a venir meno col tempo, da parte di coloro che traggono i guadagni dalle restrizioni economiche nazionali, da parte cioè dei dirigenti delle industrie che profittano delle autarchie, e di quegli strati di lavoratori agricoli e industriali i cui guadagni sono elevati grazie ai vari protezionismi (15). Valido sostegno all’unità fornirebbero invece quelle forze economiche paralizzate nelle loro iniziative dai restrizionismi nazionali, cioè quegli imprenditori che non contano, per far fruttare le loro imprese, su sussidi e su protezionismi, ma sull’esistenza di mercati grandi e ricchi (16), ed i lavoratori desiderosi di riottenere la piena libertà di movimento, per recarsi là dove il lavoro possa fruttare di più.
Concludendo questa rapida rassegna, possiamo dire che la federazione europea non è solo un ordinamento utile in astratto, ma che vi sono nella società odierna, ed ancor più si accrescerebbero per l’avvenire, forze ed interessi sufficientemente ampi e solidi per mantenerlo in vita e farlo funzionare in modo efficace.
4°) Resta ora da esaminare l’aspetto politico del problema. La federazione europea può essere la più razionale soluzione del caos attuale. Possono esserci, una volta che essa sia sorta, fortissimi gruppi sociali interessati a mantenerla. Tutto ciò evidentemente non basta. La soluzione più razionale non riuscirebbe ad affermarsi, se non ci fossero forze che l’imponessero. Interessi fortissimi possono rimanere inefficenti, se si trovano presi in un ingranaggio che li indirizza in tutt’altro senso. È possibile che si presenti un’occasione in cui si riesca a mobilitare forze sufficienti per imporre quella soluzione? Se a questa domanda si potrà dare una risposta affermativa, è chiaro che chiunque abbia a cuore le sorti della civiltà europea dovrà mettersi a lavorare seriamente lungo questa linea, quali che possano essere le sue prospettive ultime circa le sorti dell’umanità. Se invece la risposta sarà negativa, tutta la precedente indagine risulterà inutile, e non ci sarebbe che da rassegnarci ad una lotta vana, i cui frutti sarebbero invariabilmente intossicati, e trarsi da parte sdegnosamente se si vuole, ma comunque sterilmente.
Difatti, la difficoltà maggiore insita nella soluzione federale non è come farla funzionare efficacemente dopo sorta, ma nel come farla sorgere. L’idea della federazione si trova, salvo il caso della Svizzera, completamente al di fuori della tradizione europea. Da molti secoli gli europei si muovono lungo la linea della formazione di stati nazionali sovrani, e se talvolta è balenata la possibilità di superare questa linea, è stato sempre riattaccandosi all’ancor più antica tradizione romana; e questa o quella nazione più forte ha tentato di costruire un impero, che è semplicemente l’ultima logica conseguenza del principio nazionale. La forza maggiore di cui dispongono gli interessi antifederali è proprio questa tradizione nazionale. Abbiamo già visto nei due capitoli precedenti come le stesse forze progressive vi si sieno adattate, divenendone prigioniere, in modo che anche le tra-dizioni di più recente formazione, democratiche e socialiste, accettano i termini nazionali della lotta politica, si muovono entro di essi, e rinviano a un nebuloso avvenire che non impegna a nulla, il superamento delle contraddizioni scaturenti dal principio delle sovranità nazionali.
L’ostacolo è nella forza d’inerzia che spinge a proseguire secondo le direzioni già avviate. Per realizzare i loro interessi, gli uomini vengono elaborando leggi, discipline, abitudini, organizzazioni, tradizioni. Col modificarsi degli interessi effettivi non si modificano però senz’altro questi meccanismi sociali e psicologici, la cui caratteristica è anzi proprio quella della permanenza. Anche quando son divenuti dannosi, continuano ad essere conservati per la combinata influenza di coloro che, anche non essendolo o non essendolo più, non riescono a scorgere come si potrebbe procedere altrimenti. Gli interessi nuovi ed effettivi, non avendo sempre la forza e la chiarezza di idee necessarie per far piazza pulita delle tradizioni vecchie, fanno compromessi, vi si adattano, e finiscono spesso per crearsi discipline e tradizioni che danno una piega irrimediabilmente fatale ai loro sforzi. Il passato non alimenta solo il presente, ma spesso lo soffoca e lo avvelena.
A sostegno dei particolaristici interessi conservatori e della pigrizia spirituale, interviene allora l’ingegnosità intellettuale, che si dà a dimostrare il valore assoluto di quel che esiste solo perché esiste. Quel che è stata opera degli uomini, e dagli uomini può essere disfatto, viene convertito in un qualcosa che li trascina, volenti o nolenti. Si scoprono qualità innate di dominio nel popolo lanciato alla conquista. Oppure si afferma che non si può far violenza alle aspirazioni profonde dei popoli e delle classi, ma solo realizzare quel che è nella loro coscienza. Si individuano corsi necessari nella storia; la tradizione pesa come un incubo sull’uomo vivente e lo spinge a procedere su un cammino che magari termina in un abisso, ma che è il noto, sicuro cammino tracciato dagli antenati. «Weh dir, dass du ein Enkel bist»!
Questo argomentare, profondamente reazionario, e teorizzato al principio del secolo scorso, per motivi esplicitamente reazionari, lo udiamo snocciolare ad ogni piè sospinto, in coro, se pur con diversi intenti. È questa una prova, non come si illude di «senso storico», ma di ottusità storica, del grado in cui si è prigionieri, sia pure inconsciamente, delle forze reazionarie. Aver senso storico significa capire che «sabato è fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato».
Ragionando secondo lo pseudo-storicismo romantico, dovremmo dare senz’altro una risposta negativa alla nostra domanda: la federazione europea è irrealizzabile perché nessuno dei modi tradizionali che indirizzano le grandi forze sociali e contribuiscono in modo decisivo a influenzare le forme più appariscenti della loro coscienza, si muove nel senso della loro realizzazione. O, per adoperare un termine di moda, l’idea della federazione europea non è un mito come quello della nazione, della democrazia, del socialismo.
Nonostante tutto quello che si è detto finora a favore della federazione, l’idea federalista non avrebbe nessuna seria probabilità di tradursi in realtà, se avesse di fronte un modo stabilmente inquadrato nelle tradizionali regole ed organizzazioni. Contro la loro tremenda forza d’inerzia, qualunque abilità propagandistica, qualunque forza di ragionamenti, qualunque ardore di passione sarebbero condannati ad in-frangersi. Le stesse forze che dovrebbero sostenerla, resterebbero prigioniere dei vecchi schemi. La cultura europea continuerebbe a fiorire alla meno peggio, rimanendo però assolutamente incapace di frantumare la pseudo cultura nazionalistica. Le forze democratiche continuerebbero a tentare impossibili compromessi tra istituzioni libere e militarismo; le tendenze socialiste continuerebbero ad aspirare a socialismi convertentisi in collettivismi militaristici. Al centro di tutto ciò resterebbe imponente come una divinità lo stato nazionale sovrano. Gli Stati Uniti d’Europa continuerebbero ad essere un’utopia, come lo sono sempre stati sin ora.
Per la loro realizzazione occorrono circostanze particolarmente favorevoli, in cui le vecchie tradizioni, i vecchi schemi di condotta, in seguito a gravissimi eventi, abbiano transitoriamente perduto la presa che facevano sugli animi; circostanze che offrano alla tendenza federalista l’opportunità di imporre, come criterio di divisione fondamentale degli spiriti, l’atteggiamento pro e contro l’unità europea, di assumere la direzione delle forze favorevoli, indicando con chiarezza e compiendo con sicurezza gli atti necessari per creare gli ordinamenti intorno ai quali gli interessi indicati nelle pagine precedenti possano restare saldamente uniti. E solo allora, avviando nuove discipline e facendo sorgere nuovi problemi, si verrebbe a creare la nuovo tradizione e il nuovo «mito» popolare dell’unità europea. Volere che esso esista preventivamente, significherebbe voler mettere il carro innanzi ai buoi.
Ora questa circostanza straordinaria è molto probabile che si presenti presto. Tutti i più recenti avvenimenti giocano in questo senso.
Anche alla fine dell’altra guerra, si sentiva che occorreva fare qualcosa di serio per evitare il ripetersi degli errori da cui si era usciti. Durante il suo corso, si era manifestata ai vari stati la necessità di condurre azioni comuni, che avrebbero potuto essere embrioni di strutture politiche superstatali, quali il comando unico, fondi in comune per la stabilità dei cambi, distribuzione delle materie prime disponibili per rendere massima l’efficienza produttiva generale, ecc. In ambedue i campi, gli stati più energici, cioè la Germania e l’Inghilterra, avevano costituito la spina dorsale delle intere coalizioni di stati combattenti. E tuttavia ogni paese spiritualmente aveva combattuto per sé, per la propria difesa, pel soddisfacimento delle proprie ambizioni. In ogni paese, gli sguardi dell’uomo comune erano permanentemente rivolti a quel che faceva o non faceva il proprio stato. La stessa caratteristica di guerra di posizione assunta dalla lotta fra i popoli, faceva concentrare tutta l’attenzione sulle proprie frontiere. Gli anni della guerra avevano sottoposto ciascuno stato ad una rude stretta, ma lo avevano per così dire ancor più isolato da tutti gli altri e dalla visione dell’interesse comune dei vari popoli. Ciascuno si avviò verso la crisi post-bellica chiuso nell’orizzonte nazionale. Nell’interno di ogni stato rimasero predominanti le divisioni operate dal problema dell’organizzazione politica (democrazia e autoritarismo) e quelle operate dai problemi della proprietà (socialismo e capitalismo). Tutte queste forze lottarono aspramente per creare uno stato autoritario o democratico, capitalista o socialista, ma pur sempre per rendere più solido lo stato sovrano — l’idolo.
Il movimento proletario che allora occupava il primo piano, e che avrebbe potuto influire in modo decisivo sulla politica internazionale, si trovò agitato ed esaltato da sentimenti di solidarietà internazionale soprattutto verso la rivoluzione russa. L’invito russo a costituire solidi partiti rivoluzionari, capaci di realizzare una rivoluzione mondiale, non fu tuttavia accolto dall’enorme maggioranza degli operai, che mostrarono coi fatti di simpatizzare colla rivoluzione russa, ma di voler proseguire la loro tradizionale politica in termini nazionali. Il mito russo ebbe così, nel campo della politica internazionale, quasi l’unico effetto di far sorgere speranze palingenetiche, lasciando completamente nell’ombra, in tutto il periodo critico del dopoguerra la questione dell’organizzazione della pace nel mondo, e in particolare sul continente europeo. Quantunque questa fosse effettivamente la cosa decisiva, agli effetti dei futuri sviluppi dell’umanità, rimase affidata ai vecchi statisti i quali, si potrebbe quasi dire per deformazione professionale, non furono capaci di vedere altro che i problemi della potenza nazionale, e di premere per ottenere, a secondo della loro abilità e delle forze che avevano dietro, nei limiti della pace, succeduti a quelli della guerra, questo e quel vantaggio. Solo pochissimi intesero il pericolo della ricostituzione della sovranità assoluta degli stati europei (17). Così stando le cose, è facile capire come il bisogno di dar vita ad un ordine internazionale abbia prodotto solo l’aborto della S. d. N. (18).
L’attuale guerra ha avuto un andamento totalmente diverso. Esclusa l’Inghilterra, mezza Russia e alcuni secondari stati occidentali, tutto il continente si trova, in massima parte direttamente e in una parte minore indirettamente, sotto il dominio della Germania. Le antiche strutture statali sono fracassate o si reggono solo in modo apparente. Questo stato di cose che, in caso di vittoria tedesca, costituirebbe il punto di partenza dell’impero tedesco, costituirebbe nel caso contrario, la situazione più favorevole per l’affermarsi dell’idea federalista. L’attuale giogo tedesco spinge infatti i vari popoli a liberarsi, ma pone questa esigenza non come esigenza particolare di ciascun popolo, ma come comune interesse di tutti i popoli europei. Già fin d’ora i sentimenti popolari vanno perdendo la loro grettezza nazionale: in misura crescente i popoli seguono col cuore non le sorti della propria bandiera, ma le sorti delle forze che combattono per loro, anche se ufficialmente sono forze di un paese nemico. Tutti i paesi cominciano a rendersi conto che il problema per cui si combatte è un problema superiore a quello della potenza della propria nazione. Cadendo spezzata la potenza militare del nazismo, tutti i paesi europei si troverebbero con-temporaneamente di fronte al problema di dare un ordine al continente. La gravità delle sofferenze patite e del pericolo corso di generale asservimento, farebbe sentire in modo urgente questa necessità. Il problema dell’ordine internazionale sovrasterebbe su quello dell’ordine nazionale, in una misura quale alla fine dell’altra guerra non fu certamente sentito. Non ci si troverebbe dinanzi, solidi e imponenti, gli stati nazionali sovrani ad affascinare l’attenzione di tutti, dei vinti, dei vincitori, dei liberati, la tragica impotenza di quegli idoli. Le reazionarie tendenze nazionalistiche, camuffandosi a seconda delle passioni del momento, potranno cercare di aggiogare di nuovo al loro carro le passioni nazionali offese dalla recente oppressione; ma non potranno monopolizzarle senz’altro a piacer loro. Un movimento politico federalista potrebbe far fallire il loro gioco, rivolgendosi anch’esso a quelle passioni e cercando di guidarle verso una soluzione che non ignori i sentimenti nazionali, ma dia anzi loro il modo di manifestarsi liberamente. Data la freschezza del ricordo della guerra, il tono del momento non sarà quello di un aggressivo nazionalismo, ma sarà il desiderio di non veder più oppressa la propria nazione, e di trovare un modo di vivere in pace con i vicini. La soluzione federale verrebbe incontro a questa aspirazione molto meglio della semplice restaurazione delle sovranità nazionali. La lotta sarebbe certamente dura ed occorrerebbe energia ed abilità per rag-giungere lo scopo. Se si trattasse di creare uno stato unitario, i sentimenti nazionali sarebbero in blocco contrari e sarebbe difficile mobilitare forze sufficienti per venirne a capo. Ma per una soluzione federale occorrerebbe non già spezzare le passioni nazionali, bensì appoggiare largamente su di esse impedendo che si riformasse l’anello che le tiene ora legate alle forze nazionalistiche. Si tenga conto infine che, dato lo sviluppo degli avvenimenti, è prevedibile che la crisi definitiva non verrà isolatamente prima in questo e poi in quel paese, ma contemporaneamente in tutta l’Europa, al momento del collasso della potenza militare che ora la tiene quasi tutta sottomessa. Ciò faciliterà enormemente il coordinamento della propaganda e dell’azione in tutti i paesi.
L’idea federalista, essendo così posta all’ordine del giorno come quella che mirerebbe a risolvere il più urgente di tutti i problemi del dopo guerra, e toccando direttamente lo stato nazionale, cioè l’organo verso cui sono orientati tutti i movimenti tradizionali che mobilitano le masse, non potrebbe non esercitare una profonda azione di rinnovamento e di chiarificazione sulle aspirazioni democratiche e su quelle socialiste. Anche queste tendenze non si presenteranno, come si presentarono alla fine dell’altra guerra, con quadri politici formati, con masse organizzate, abituate a seguire le loro direttive, in una parola con la forza di una tradizione consolidata.
Mentre il desiderio di libertà sarà grandissimo, incertissime saranno le idee sul come realizzarla. Nelle menti di tutti sarà vivissimo il ricordo del marcio che si cela nelle democrazie nazionali, condannate ad essere un disperato connubio fra democrazia e militarismo. Vediamo già ora come questo ricordo renda confusi ed incerti tutti i paesi dei democratici. Il movimento federalista avrebbe da raccogliere le forze vive anche in questo campo. Dovrebbe penetrare in mezzo alle imponenti ma disorganizzate masse, indicando l’unica via possibile per realizzare in modo permanente quel-l’aspirazione, ed impedendo così il loro ricadere in balìa delle tradizionali vie democratiche nazionali. Anche qui non si tratta di ignorare e contrastare l’esigenza della libertà, agitantesi nei cuori dei popoli, stanchi dei dispotismi totalitari; non si tratta di andare in cerca di altre forze da opporre a questa, ma di sapere indirizzare le aspirazioni esistenti.
E se, infine, si prendono in considerazione le tendenze socialiste delle classi lavoratrici, si scorge che son ben lungi dall’essere soddisfatte, e che nella crisi del dopo guerra si faranno sentire imperiosamente. Ma non si tratta più di passioni già inquadrate e dirette verso precisi scopi. Al contrario. I vecchi partiti proletari sono stati privati della tradizionale presa organizzativa sulle masse, e l’esperienza nel periodo che va dal 1918 ad oggi ha confuso tutte le loro idee, e li ha resi incertissimi circa il futuro cammino da percorrere. Basti confrontare, per prendere solo il caso del più energico di essi, la sicura baldanza con cui i socialisti di tendenza rivoluzionaria (cioè quelli che sarebbero ben presto diventati comunisti) dichiaravano durante l’altra guerra che presto sarebbe venuta l’ora dell’instaurazione del socialismo, e la cautela con cui si esprimono oggi i comunisti, i quali usano spesso parole genericamente democratiche. Ciò è dovuto in parte ad una abilità tattica, e, non avendo essi modificato nulla delle loro concezioni fondamentali, non si capirebbe proprio per qual motivo non dovrebbero percorrere la stessa via di ultracollettivizzazione percorsa dalla Russia, qualora se ne offrisse loro l’opportunità. Ma che abbiano sentito il bisogno di lasciare in ombra le loro vedute è un notevole sintomo di quanto essi stessi sentano non più corrispondente alle aspirazioni socialiste proletarie il loro collettivismo. Il collettivismo nazionale (e praticamente, come si è visto, non è oggi possibile altro collettivismo che quello su scala nazionale) non ha più il fascino delle cose ignote. Anche le aspirazioni socialiste del proletariato non si troveranno alla fine della guerra già captate nei vecchi schemi, ed il movimento federalista potrà efficacemente lavorare per indirizzarle nel senso favorevole ad una soluzione europea, propugnando riforme radicali e mostrando come possano veramente fruttificare solo nell’ambiente liberato dall’incubo imperialista.
Ogni paese avrà i suoi particolari problemi da risolvere. Risolverli tutti in modo omogeneo ed unitario, coordinare tutti i disparatissimi movimenti, sarebbe un’impresa disperata. Ma i federalisti non dovrebbero proporsi ciò, poiché non intendono creare uno stato unitario europeo. L’idea federalista, quantunque sia profondamente innovatrice, è fornita di una elasticità tale da permetterle di diventare rapidamente, in una situazione rivoluzionaria, il criterio di distinzione delle forze politiche e delle passioni esistenti, non contrapponendosi ad esse, ma impregnandole di sé e rendendole così immuni dalle fatali deficienze dei vecchi orientamenti. Basterà che a queste forze e passioni nazionali, democratiche, socialiste, profondamente disorientate, sappia con un’opera intelligente mostrare che, per l’adeguata risoluzione delle loro esigenze, condizione imprescindibile è la formazione dei pochi, semplici, facilmente comprensibili, solidi ed irrevocabili istituti federali. Non occorrerà preoccuparsi troppo del coordinamento dei singoli problemi nazionali. Con la creazione della federazione sarebbe infatti creato l’ordinamento interno al quale le forze progressive verrebbero naturalmente coordinandosi e dal quale riceverebbero la loro ulteriore impronta.
5°) Da quanto si è detto appare chiaro che la difficoltà maggiore da superare per riuscire, non è l’esistenza di vecchie tradizioni; poiché queste si presenteranno rotte e disperse, o per lo meno incerte e disorganizzate. La difficoltà maggiore è nella formazione del movimento federalista. Senza di esso la straordinaria congiuntura delle condizioni favorevoli si dissolverebbe inutilizzata. Quel che si richiede agli attivi federalisti è molto più di quel che si richiede alle masse mobilitabili a favore dell’unità europea. Occorre infatti che intendano, sì, il valore delle esigenze di indipendenza nazionale, di libertà politica, di eguaglianza sociale, ma occorre anche che si immunizzino mediante una seria autocritica, di tutti i feticci, nazionali, democratici, socialisti, cioè dei tradizionali insufficienti modi con cui si è finora cercato di soddisfare quelle esigenze. Se avranno questa immunità saranno capaci di far presa sulle masse e guidarle verso obbiettivi a cui esse sono già state inconsciamente predisposte da tutti gli eventi storici.
Se saranno invece prigionieri dei vari feticci e simboli correnti, saranno assolutamente incapaci di assolvere a quella funzione di direzione, e non avranno la spregiudicatezza e la fermezza necessarie per tenere unite le molteplici forze e per raffrenarle, quando nella loro unilateralità minacciassero di far mancare lo scopo; non saranno capaci di dare ordine al caos delle masse, ma ne saranno inghiottiti.
(1) L’autore scriveva nel 1941. Oggi vale la pena di completare l’elenco: francesi, belgi, olandesi, danesi, norvegesi, jugoslavi,
greci, albanesi e italiani.
(2) I motivi patriottici, cioè proprio quelli che più facilmente si convertono in boria nazionale e in propensione ad opprimere altri popoli, sono nell’epoca moderna i più fortemente sentiti. Ci basti ricordare uno dei casi più clamorosi. Il 14 gennaio 1935 gli abitanti della Saar furono chiamati a decidere se il loro paese dovesse per altri dieci anni rimanere sotto l’amministrazione della S. d. N. o tornare alla Germania, o passare alla Francia. Gli abitanti della Saar erano nella quasi totalità operai organizzati, amanti delle loro libertà, e in gran parte cattolici. Da una vivacissima campagna antinazista svolta fra loro da numerosi fuorusciti tedeschi erano stati precisamente informati di che cosa significasse l’immediato ritorno alla Germania, sotto il governo di Hitler. Un corpo
di truppe anglo-italo-olandese-svedesi assicurò l’ordine, dando le migliori garanzie del segreto di voto. Il plebiscito dette 476.089 voti per la Germania, 46.613 per lo statu quo e 2.083 per la Francia. Il sentimento nazionalistico fu così travolgente, che gli stessi operai non presero in seria considerazione neppure la decisione dilatatoria, che non avrebbe compromesso nulla, e si pronunciarono con una spettacolare maggioranza per l’immediata unità col Reich, cioè per la distruzione delle loro organizzazioni sindacali, per la persecuzione della loro religione, per la perdita delle loro libertà.
(3) La traduzione odierna di questo manicheismo democratico è l’asserzione che le guerre sieno causate, se non dall’avidità del
principe, dall’avidità dell’oligarchia capitalistica. La risposta qui data a tale argomento vale perciò anche per questa tesi, di cui si
parlerà più particolareggiatamente nel capitolo seguente.
(4) Gli esempi si possono moltiplicare, traendoli tanto dalla storia più antica quanto da quella più recente. Tra i più esosi ed
invadenti casi di sfruttamento, sono da ricordare la politica della democrazia ateniese verso le città alleate; quella della democrazia fiorentina rispetto al contado e a Pisa; quella delle democrazie dei Cantoni di Berna, di Uri, di Schwyz e Unterwalden, rispetto ai territori di Vaud e del Canton Ticino.
(5) Ciò non ha impedito naturalmente all’Inghilterra di fare sopraffazioni di ogni genere, le quali non hanno come conditio sine
qua non la civilizzazione dello stato, ma la semplice volontà di far prevalere gli interessi particolari. Ha però ostacolato il sorgere del
sentimento imperialistico, il quale vede nello stato un ente superiore fornito di diritti estendentisi sin dove si estende la sua forza. L’Inghilterra ha sì creato il più grande impero del mondo, ma è contemporaneamente, per strano che possa apparire, uno dei paesi
meno forniti di mistico potere imperialista.
(6) Per la storia di questa esperienza, quanto mai istruttiva vedi Arthur Rosenberg, Geschichte der Deutschen Republik, ed.
“Graphia”, Karlsbad, 1935. La difficoltà che ha una restaurazione democratica di venire a capo delle tradizioni dello stato moderno,
dipende dalla specifica necessità in cui si trova di salvare istituzioni animate da uno spirito niente affatto repubblicano (cioè tale
da concepire l’attività dello stato come un servizio pubblico destinato a soddisfare i bisogni cittadini), ma compenetrato invece di
spirito misticamente imperiale (cioè tale da compenetrare l’attività dello stato come un fine a cui i sudditi debbano prestare i loro
servizi).
La difficoltà ha però un aspetto molto più generale. La radice più profonda del diritto dello stato ad esigere l’incondizionato servizio dei cittadini per soddisfare i suoi fini, si trova nella coscienza stessa dell’uomo moderno, abituato a quelle prestazioni, e che riconosce allo stato, come cosa del tutto naturale, il diritto di chiamarlo al servizio militare, al combattimento, alla morte. Ci sono
state intere epoche in cui questo potere di obbedienza non esisteva; ma è certo che lo stato moderno europeo, qualunque sia la sua
struttura sociale e politica, finché deve contare su una possibilità di guerra, non può ovviare un’educazione che lasci cadere in desuetudine quell’atteggiamento, ma deve alimentarlo permanentemente nel cuore di tutti i cittadini. Perciò, anche dopo una radicale rivoluzione, esauriti i sogni palingenetici del primo momento, se manca una nuova organizzazione internazionale, che renda impossibile per lo stato una linea di condotta imperialistica riemergerà, con varianti non sostanziali, nell’animo dei cittadini, l’abitudinaria coscienza di sottomissione alle esigenze imperiali dello stato. Il rapporto tra stato e suddito torna ad essere quello di prima. Ciò può contribuire a spiegare come la monarchia assoluta francese sia risorta così rapidamente nella potenziata fama napoleonica, e l’autocrazia tradizionale russa si sia evoluta nell’accentramento staliniano. Anche dopo la caduta dei rispettivi anciens régimes, il francese e il russo continuavano a sentirsi impegnati a dare la loro vita al loro stato, incondizionatamente, e le circostanze obbiettive non permettevano che si evolvesse una diversa coscienza.
(7) Una buona critica di questa teoria si trova in The economic causes of War di Lionel Robbins (Macmillan, New York,
1940), di cui è specialmente consigliabile la lettura, come introduzione allo studio dei problemi dell’organizzazione federale dell’Europa.
(8) Le parole tra virgolette sono dello stesso Lenin. Il brano è tolto dal manifesto del secondo congresso dell’Internazionale comunista del 1920 che, come è noto, rappresenta il più maturo pensiero di Lenin sulla rivoluzione socialista mondiale. Le idee sul
capitalismo di stato del tempo di guerra come mezzo per realizzare il socialismo, sono state scritte durante la guerra.
(9) La cosa sembra loro così ovvia, che nel manifesto sopra citato, mentre la dittatura del proletariato è chiaramente concepita
come la presa di possesso da parte del proletariato degli stati esistenti, manca ogni esplicito accenno alla necessità di procedere alla formazione di istituzioni politiche internazionali; solo di passaggio, parlando non della sorte dei grandi popoli, ma di quella dei piccoli, si dice che: “soltanto la rivoluzione proletaria può assicurare ai piccoli popoli una libera esistenza, liberando essa le forze produttive di tutti i paesi dalle ristrettezze degli stati nazionali, riunendo essa tutti i popoli in una compatta cooperazione economica, basata su un piano economico generale...”.
L’impossibilità di dare un piano economico internazionale senza avere un potere politico internazionale, sfugge ai comunisti, di solito così sensibili nell’apprezzare l’importanza centrale del potere politico in tutte le faccende di rivoluzioni proletarie.
(10) L’impossibilità di far convivere pacificamente più stati socialisti sovrani, è identica all’impossibilità di far convivere e cooperare più comuni socialisti sovrani. I comunisti hanno inteso molto bene questa seconda difficoltà, hanno respinto il federalismo comunistico-anarchico e lo hanno combattuto quando — in Spagna — ha minacciato di dissolvere tutto in una polvere di piccole comunità rissose e gelose. Nel caso della convivenza fra stati, essi assumono invece lo stesso serafico ottimismo degli anarchici, e son sicuri che tutto filerà alla perfezione da sé, senza bisogno della costrizione della legge internazionale, non appena la bestia capitalista sia distrutta.
Sull’argomento trattato in questo paragrafo, dei rapporti fra stati socialisti indipendenti, l’opera fondamentale è: Economic planning and International order di L. Robbins (London, 1937), in cui viene ampiamente svolta, dal punto di vista economico, la tesi della necessità della federazione europea.
(11) Un tentativo di vedere le cose da questo punto di vista in realtà c’è stato, e l’incomprensione che ha incontrato nelle file comuniste è significativa. Trotzki, già durante la guerra mondiale, si era opposto a quello che egli chiamava “nazionalismo a rovescio” di Lenin e aveva proposto di mettere all’ordine del giorno gli Stati Uniti socialisti d’Europa. Nel 1930 scriveva: “L’ora della scomparsa dei programmi nazionali è suonata definitivamente il 4 agosto 1914. Il partito rivoluzionario del proletariato non può fondarsi che su un programma internazionale corrispondente al carattere dell’epoca attuale”. Nel 1931-32 ha proposto per la Germania, che si trovava allora sull’orlo della catastrofe, un piano rivoluzionario secondo il quale la questione centrale non doveva essere, come sostenevano invece i comunisti, l’instaurazione di una Germania sovietica, accanto alla Russia sovietica, ma l’unione dell’economia tedesca e di quella russa. Egli si rendeva però perfettamente conto che l’ostacolo maggiore a questa direttiva era nel socialismo nazionale russo, che non poteva ammettere di essere bisognoso di un’integrazione dal di fuori. In questa incapacità del socialismo internazionale russo di venire incontro alla crisi dell’economia tedesca, appaiono in modo tipico le estreme difficoltà di ogni genere (si pensi solo a quella sorgente dalla necessità di rivedere i piani fatti e di rimettere tutto in ballo)
che si presentano se si vuol giungere a un socialismo internazionale attraverso i socialismi nazionali. Le due vie tendono irremissibilmente a divergere.
(12) Comunisti e socialisti, proclamando di essere gli unici depositari dell’idea collettivista, si rifiutano di prendere sul serio il
collettivismo nazionalsocialista, e continuano a parlare della Germania come di un paese capitalista, pel fatto che a capo delle varie
aziende sono rimasti gli antichi dirigenti capitalisti. Ma ciò significa solo che i nazisti hanno avuto convenienza ad utilizzare le capacità tecniche di quelle persone, e sono stati così bravi da riuscirci, lasciando in vita certe formalità giuridiche. Qualsiasi dirigente industriale può però essere deposto ad un cenno dei governanti. Lo stato stabilisce quel che si deve produrre, determina i costi, fissa i prezzi di vendita e gli emolumenti degli imprenditori (salvo, naturalmente, le frodi di costoro, le quali possono però avvenire anche nel tipo del collettivismo comunista). Li trasforma insomma, di fatto, in funzionari.
(13) Data la frequenza con cui la demagogia fa uso della assurda formula del diritto di autodecisione dei popoli, giungendo fino alla separazione della compagine statale di cui fan parte, sarà bene sottolineare che l’ammissione di un tale principio è inconciliabile
con l’idea stessa di federazione. La trasformerebbe infatti in una rinnovata S. d. N., in cui ciascuno stato avrebbe pur sempre, dopo
un adeguato eccitamento delle passioni nazionali del suo popolo, il diritto di rifiutarsi alla legge comune, facendo saltare in aria tutto l’edificio. Il passaggio di sovranità allo stato federale dovrebbe essere necessariamente irrevocabile.
(14) Un altro effetto benefico avrebbe la federazione sui movimenti di rinnovamento sociale; effetto che non può essere che accennato in nota. I movimenti socialistici sono giunti a un punto morto, non solamente a causa degli sviluppi dell’imperialismo militarista, ma anche perché prigionieri della loro formula di collettivizzazione dei mezzi materiali di produzione; collettivizzazione di-mostrata nefasta tanto dall’analisi scientifica quanto dall’esperienza pratica. Perché l’esigenza giusta del socialismo — l’emancipazione delle classi lavoratrici — fruttifichi, è necessaria una revisione delle idee tradizionali, in modo che ci si renda conto dei limiti di convenienza delle misure di collettivizzazione e del fatto che occorre correggere gli effetti malefici della concorrenza, ma non distruggerla, poiché insieme ad essa si eliminerebbero il mezzo per determinare in modo più razionale l’utilizzazione delle riserve naturali ed umane. (Confronta Hayek, Collectivistic economic planning, Londra, 1935). Lo sviluppo di un’idea socialista che valuti giustamente la funzione della libera concorrenza si urta di fronte a pesantissime tradizioni, finché il corso generale vada, a causa delle esigenze militaristiche, verso una crescente collettivizzazione. In tal caso, per i socialisti di tutte le tendenze, la via di minor resistenza psicologica è quella consistente nell’accettare quel corso, esigendo che sia impiegato a favore delle classi lavoratrici. La federazione, creando invece un’atmosfera di libero scambio, viene incontro in modo naturale al processo di elaborazione di più vitali e feconde idee socialiste.
(15) Quantunque non sia di moda collocare nelle eventuali file reazionarie anche gruppi di lavoratori, ciò va fatto. Non è verosimile che nei paesi europei, salvo alcuni gruppi eccezionali più profondamente impregnati di egoismo di categoria, ci sieno molti operai che vi militerebbero effettivamente. Ma ciò, non perché non ve ne sieno parecchi che partecipino ai profitti del restrizionismo nazionale, bensì perché una federazione europea, pur costringendo molti di loro a cambiare le loro occupazioni, offrirebbe nel complesso vantaggi talmente superiori, da controbilanciare ad usura i danni della cessazione del protezionismo. Si pensi però, per fare un caso tipico, quantunque non europeo, alla immensa resistenza reazionaria che farebbero le masse operaie americane, ad una politica comportante l’abolizione delle restrizioni immigratorie. È inoltre da tener conto che i lavoratori europei sono, a differenza di quelli americani, troppo impregnati di ideologie politiche progressiste, per lasciar prevalere solo gli interessi che li porterebbero a militare accanto agli altri ceti che si trovano nel campo reazionario. Un caso tipico di prevalenza degli interessi ideali su quelli materiali nelle classi lavoratrici può essere dato dal favore dimostrato per la causa di Lincoln dai tessili di Manchester che, seguendo i loro interessi economici, avrebbero dovuto partecipare per gli schiavisti del sud.
(16) Il considerare il capitalismo come un blocco fornito di interessi abbastanza omogenei, e limitare questi interessi al legame esistente tra capitale monopolistico e stati imperialistici, impedisce alle tendenze socialiste di considerare con obbiettività la funzione che spetterebbe a forze capitalistiche in un ordinamento federale, e fa loro erroneamente sostenere che questo ordinamento presuppone l’abolizione del capitalismo. In realtà, solo una parte dei capitalisti è legata alla sorte degli stati nazionali. Notevolmente importanti sono invece gli interessi capitalistici esistenti contrari alle autarchie nazionali (banche, commercio di esportazione, produttori di materie prime che trovano sbocco sufficiente solo in un mercato mondiale, produttori che impiegano materie prime estere, ecc.). Questa massa di interessi aumenterebbe rapidamente nel senso del capitalismo preso come complesso, non appena l’ordinamento federale fosse istituito. Ad esso spetterebbe in sostanza il compito di trasformare gli anemici mercati autarchici in un unico ricco mercato continentale. Se non ci fosse il sostegno di questo capitalismo liberoscambista con la sua forza unificatrice, la federazione si troverebbe a dover risolvere per via burocratica il sovrumano problema di unificare le membra disiecta delle singole economie nazionali.
(17) In Italia specialmente notevoli furono le Lettere politiche di Junius pubblicate sul “Corriere della Sera” del 1918-19 e ristampate nel 1920 (Laterza, Bari). Meritano ancor oggi di essere meditate la VII e la IX.
(18) Le persone di buon senso prevedevano, già prima che fosse istituita, la assoluta inefficacia di una S. d. N., rispettosa della completa sovranità dei singoli stati. Oltre alle lettere di Junius citate, vedi, ad esempio, il mordente giudizio di Winston Churchill che faceva parte della delegazione britannica a Versailles (cfr. nota a pag. 232 di Guerra diplomatica di Aldovrandi Marescotti, Milano, 1939).